Tesfay Afeworki, pizzaiolo: «Qui ho realizzato il mio sogno»

In fuga dall’Eritrea, dopo il tirocinio, grazie al progetto Sprar, lavora alla storica Naif «Ricordo che quando sono arrivato vedevo questo locale con tanta gente dentro…»

Tesfay Afeworki

di Matteo Cavezzali

L’Italia è un paese la cui identità ha pochi punti fermi. In questo stivale lungo e stretto si parlano dialetti diversi, si mangiano cibi diversi, ci sono abitudini diverse. Uno dei pochi capisaldi dell’italianità è la pizza. La pizza mette tutti d’accordo. Se per avere la cittadinanza italiana mettessero una prova sul “come si fa la pizza” Tesfay Afeworki sarebbe più italiano di molti.
«In Eritrea abbiamo una cosa che chiamiamo pizza, ma ti assicuro che non c’entra niente con la vostra». Racconta Tesfay arrivato in Italia nel 2012 e oggi pizzaiolo di Naif, storico locale di Ravenna.
«Da noi si mangia molto piccante. Però ci sono alcuni piatti italiani, o meglio con nomi italiani, derivati dal colonialismo. Ci sono le lasagne, la pasta al forno, e siamo praticamente l’unico paese dell’Africa in cui si usano forchetta e coltello. Insomma partivo avvantaggiato» dice riedendo.
Ha una risata contagiosa Tesfay, è impossibile ascoltarlo senza farsi contagiare dalla sua positività. «Quando sono arrivato a Ravenna passavo molte volte davanti a questa pizzeria, c’era sempre tanta gente, e sognavo di poter lavorare qui un giorno».

Tesfay è fuggito dall’Eritrea sette anni fa. «Avevo fatto il servizio militare obbligatorio. Doveva durare un anno, ma poi lo stato ha deciso di non lasciarci più. Continuavano a prorogami la leva di anno in anno. L’Eritrea confina con l’Etiopia, uno stato molto più grande e c’è molta paura di una possibile invasione. Così ci tenevano lì, lungo il confine, tutti vestiti da militari, con i fucili ben in vista. Io però volevo farmi una vita, così dopo sei anni di non-vita da soldato di nascosto ho abbandonato il fucile in un fosso, mi sono tolto la divisa e ho attraversato quel confine che dovevo presidiare. Ho disertato. Sono finito in un campo profughi in Etiopia, dove però eravamo visti come nemici. Di lì la mia fuga non ha avuto fine finché non sono arrivato in quel inferno che è la Libia e finalmente in Italia».

Dopo aver attraversato diverse città è finito nel progetto Sprar che la coop Camelot gestisce per conto del Comune di Ravenna. Lì ha iniziato un percorso di inserimento, ha imparato l’Italiano, ha iniziato a studiare e alla fine Camelot gli ha trovato un tirocinio come pizzaiolo a Naif. «Claudio – il gestore della pizzeria – è stato il mio maestro. Lui mi ha insegnato tutti i segreti del mestiere e quando il tirocinio è finito mi ha detto che mi voleva accanto a lui e così mi ha assunto. Per me è stato un sogno che si avverava poter lavorare in quel luogo che avevo osservato tante volte dalla strada con grande fascino».

Tesfay porta così avanti la tradizione della pizza, la più importante delle identità italiane. Gli chiedo cosa pensa quando sente in televisione dire che gli stranieri vengono a danneggiare l’identità italiana, lui scoppia a ridere con una delle sue risate suadenti. «Beh non solo la pizza è fatta da un immigrato, ma anche dentro ha tanti immigrati: il pomodoro non cresceva in Europa è stato portato dall’America, la lievitazione è stata inventata in Egitto, il metodo di produzione dei formaggi come la mozzarella è nato in Siria. Come vedi non sono l’unico immigrato di questa storia. Ma la cosa più importante è un’altra». Ah sì? Qual è? Gli chiedo. «Assaggia quanto è buona! Questa è l’unica cosa che conta».

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