Primo dispaccio

mercoledì 26 aprile

Esco da Victoria Station e mi ripeto che ogni inizio è vuoto. Non posso parlare di questo viaggio perché sono ancora mangiato da quel vuoto e nel massacro dell’aria londinese lo spillo dell’isteria si tramuta prima in una catena per un curioso incantesimo del metallo a cui piedi e caviglie obbediscono, poi nella spada naturale che sgorga dalle vene come un delfino volenteroso – dunque nella lancia lunghissima con cui mi trafiggo per esserne scagliato lontano, fuori dal terrore.

I corvi di Londra sono vitelli alati, pesanti come lingotti di petrolio. Dai becchi aguzzi nascono le mosche, il loro grido stregato fa precipitare grandine leggera a difesa di un reame deserto a margine dell’A2.

Questa non è Strabatenza. Nessuna selciata grigia e verde a ricordare la sanità delle prime cose, il lavoro umano sull’elemento che digrada in sfasciumi ai margini del silenzio; né Rio Salso o le briciole amare del Borgo dei Crivellari, che ogni pioggia assottiglia sempre di più. Li ho nella voce, i miei luoghi, gli scenari privilegiati dell’avventura, della solitudine, dello sconforto impotente sommerso dallo sconcerto micidiale che come una belva tiranneggia fra il centro di Londra e i suoi satelliti, in quel lembo sottile di pelle percorso da nervi doloranti.

giovedì 27 – venerdì 28 aprile

Dartford, Rochester, Sittingbourne: figli sgraziati e idioti di quella infinita ditata di merda sulla faccia del Kent che è l’A2. Cimiteri, panchine affondate in panorami che ardono di fiamme nere, cubi di cemento in agguato fra le frasche, un sole scintillante di ruggine chiara vinto e stravinto da innumerevoli passaggi di piogge.

Verso Canterbury il traffico si fa più feroce, il paesaggio più verde e deserto, acceso da vampate di fioriture, e il marciapiede si sfalda sotto i morsi implacabili della vegetazione incolta a bordo strada, dove la sorveglianza civile si allenta e l’abbandono affonda la sua oscura spada nelle cose.

sabato 29 aprile

La strada per Dover, sulla Pilgrim’s Way. Oggi domina finalmente il paesaggio bucolico del Kent, verde e larghissimo, illuminato dalla tonalità azzurrina del sole di qui. Ma se l’occhio e le orecchie si riprendono dai colpi di maglio dei giorni passati, torna la paura dello smarrimento, che serpeggia inquietando le placide vie campestri, avvelenando con leggerezza il pellegrinaggio.

domenica 30 aprile

Sbarcato a Calais. L’orrore bianco della tenuità architettonica, le forme insondabili dei dintorni portuali, le prospettive agghiaccianti di rettilinei di cemento verso un fuoco incomprensibile.

Calais – Ardres – o degli infiniti rettilinei catacombali, di case periferiche sbriciolate, di animali morti lungo la strada a scandire passi pesanti sotto un cielo bianco, spazzato da folate demoniache. E ancora: dell’isolamento, della familiare (ma mai così feroce) depressione del camminatore solitario, puntuale e inarrestabile durante traversate estreme come questa, dove la mente assorbe ogni grammo di morte che il paesaggio vomita, indurendo il sangue e minando la visione della meta. Non ho mai provato tanta tristezza nel cammino come oggi.

lunedì 1° maggio

Cammino verso Saint Omer. Pioggia, cielo placcato piombo, campagne bagnate come cetacei. Galleggia luminosa come un mantra nella mia mente la frase che mi disse il mio grande amico e sentierista Velter Apollo Waldorf, in occasione di un’antica scalata alla cima di Monte Vettore, agli albori del progetto SdO. “Ricorda sempre quanto sto per dirti, Elia: a volte c’è solo un modo per raggiungere la propria meta, e cioè sottomettere il visibile al veggente.” Così facemmo quella volta, e così farò oggi e per tutti i giorni a venire, fino a Gerusalemme.

martedì 2 maggio

Eliatazzari

Uno scatto da un sentiero tra Thérouanne e Bruay-la-Buissiére

Quelli che camminano per “trovare il senso della vita” li vedo come alieni sdolcinati e incomprensibili. Non riesco a capirli, io sono convinto del contrario, delle “orme inutili del camminatore”, della “progressiva diminuzione di forze”, del “hai fatto tanta strada per trovare qualcosa che qui non c’è”.

Verso Thérouanne: campagne bellissime e assolate, un petit calvaire, molti cimiteri che si offrono nuovi e impudici allo sguardo del camminatore spogliati della corazza delle mura come enormi e arcaici crostacei dello Stige del carapace divelto, la cui polpa grigia e morta si scalda lentamente al sole senza evaporare mai.

mercoledì 3 maggio

Oggi la strada per Brudy-la-Buissière si snoda orrenda e depressa fra campagne silenziose e cave di gesso. La pioggia cade fitta da quando sono partito, e ho trovato rifugio in un oratorio consacrato alla Madonna di Lourdes. Oggi la solitudine pesa come un macigno, oggi strada cattiva.

9,4 km all’arrivo. Non ho ancora posato lo zaino a terra, non mi sono ancora seduto. Cammino, e quando sfioro le siepi fiorite di bianco, i petali restano attaccati al mio braccio.

Mentre mangio, una bambina bionda quasi albina dall’aria seria si ferma davanti a me e mi pianta addosso uno sguardo severo e corrucciato ma i suoi occhi sembrano guardare oltre me. Poi la madre la rimprovera, lei fugge via sulle sue gambette senza un rumore, e io penso a quelle storie sui bambini che vedono e parlano con le persone morte. C’è qualcosa che mi accompagna? Sto forse camminando con i morti?

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