Quadri di un Rinascimento elettronico

Sulla mostra retrospettiva di Bill Viola allestita a Palazzo Strozzi e altri spazi espositivi a Firenze

“Four hands”, polittico di video in bianco e nero, 2001

La prima volta che vidi un’opera di Bill Viola onestamente sapevo assai poco di lui: nel 1995, a Venezia nel contesto della Biennale, rimasi affascinata dall’installazione sonora Presence, in cui alcune voci in loop sussurravano segreti e vicende personali fra i battiti di un cuore e la profondità di un respiro diffusi per tutta una stanza. Nella stessa mostra, ancora di più emozionante fu la videoinstallazione The Greeting, una sorta di rifacimento del soggetto della Visitazione che con evidenza richiamava spazi e personaggi del dipinto realizzato nel 1528 dal pittore manierista Pontormo.
Col successo di questi lavori, la passione di Viola per la storia dell’arte in generale e per quella del Rinascimento italiano divenne nota. Risale almeno al 1974, quando l’artista newyorkese – allora poco più che ventenne – si trasferì a Firenze per lavorare come tecnico e cameraman della Galleria ART/TAPES/22, una delle prime in Europa ad occuparsi di videoarte. In forte anticipo sui tempi, Maria Gloria Bicocchi, la fondatrice dello spazio, aveva capito che questa nuova forma di arte avrebbe avuto un’importanza capitale nei decenni successivi. Lo spazio, divenuto punto di incontro di artisti famosi come Mario Merz, Giulio Paolini, Jannis Kounellis, Arnulf Rainer e Chris Burden, diede modo a Viola di assorbire la cultura contemporanea europea. Firenze, nel frattempo, accendeva l’amore dell’artista per l’arte italiana del Rinascimento.
The Greetings è un lavoro “strano” – come lo ha definito Viola – che vent’anni dopo alla sua esperienza professionale in Italia si legava strettamente a queste passioni che non sono mai tramontate. Il video reinterpreta completamente il dipinto del Pontormo: dove il fiorentino pone due figure femminili affrontate di profilo – la Vergine e Santa Elisabetta – duplicandole in secondo piano in veduta frontale, secondo una licenza ancora incomprensibile per significato, Viola riduce a tre donne distinte, secondo una scansione temporale di due incontri. Ancora similmente al modello vengono presentati una fuga prospettica di edifici e in lontananza due piccole figure (in Pontormo solo una). Il rallentamento dell’azione nel fimato – 45 secondi reali dilatati a 10 minuti – permettono di leggere in modo quasi lenticolare le espressioni dei corpi restituendo la sacralità del momento attraverso il tempo: un ribaltamento dei mezzi scelti dall’artista del Manierismo, che impiega invece lo spazio e il posizionamento dei personaggi, i loro volumi statuari, per sottrarre l’avvenimento alla Storia e restituirlo alla dimensione dell’eterno.

Sopra, un ritratto di Bill Viola e due due “fermo-immagine” di “The Greeting”, video/sound installation, 1995

Per comprendere di quale eternità Viola si occupi, occorre contestualizzare la nascita di questa opera: in un’intervista dichiara di essere stato abbagliato da Pontormo, dalle sue forme e in particolare dalla sua gamma cromatica, “quasi surreale”. Un giorno, recandosi in auto al lavoro a New York, si ferma ad un semaforo e incrocia lo sguardo su tre donne che si trovano per strada, le vesti rigonfie dal vento. Giunto in studio, la prima cosa su cui cade l’occhio dell’artista è una copia della Visitazione di Pontormo nella quale riconosce folgorato la scena appena vista in strada. Da qui l’idea del video, quello che poi a Venezia gli decreterà una fama mondiale.
Il racconto reso in un’intervista spiega questo video come il riconoscimento di una visione, senza alcuna interpretazione di carattere religioso: l’eternità a cui l’artista affida l’immagine, l’analisi delle forme e delle passioni, appartiene alla sfera estetica dell’arte, all’essere senza tempo a cui è destinata ogni opera d’arte quando si prende in considerazione quella distanza incolmabile di senso fra lo spettatore e l’opera d’arte, riempita solo dal tempo di chi la guarda ma mai dal tempo per cui (e in cui) essa è nata.
La disponibilità di mezzi raggiunta grazie al successo ha fatto in modo che anche i video successivi di Viola potessero contare su un’eccezionale disponibilità tecnica, simile al set cinematografico. Agli inizi della carriera negli anni ‘70, l’artista realizzava video secondo i temi e le tecniche del periodo, allora agli albori: fissando un’eclisse di luna dalla finestra con la camera fissa o bloccando l’azione di un tuffo in una piscina (The Reflecting Pool, 1977/79) e lasciando libero contemporaneamente il movimento dell’acqua, grazie ad una modalità operativa quasi incomprensibile nell’epoca del digitale. Il cuore dei lavori erano allora la manipolazione del tempo, il rapporto dell’uomo con la realtà e la tecnologia e la presenza di una forte componente spirituale, caratteri che continuano in modo diverso ad essere presenti nel lavoro successivo dell’artista.
Nonostante la povertà di mezzi, un primo scatto nel suo lavoro avviene con la realizzazione di Chott el-Djerid (1979) un video in cui le immagini del deserto sahariano – ricche di vibrazioni formali grazie ai miraggi e al calore – si mescolano agli effetti visivi di due tempeste di neve riprese negli Stati Uniti e in Canada. L’esito del tutto pittorico riesce a mettere in dubbio la natura della percezione e la sostanza delle immagini, mantenendosi lo stesso fedele alla bellezza, all’incerta estraneità che esse suscitano.
Dagli inizi degli anni ‘90 i lavori di Viola assumono le caratteristiche di brevissimi film, prima scegliendo cast casuali o persone conosciute, poi girandoli su set con attori professionisti. Il motivo del passaggio è dovuto ad una volontà di controllo formale sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista della ricerca sui corpi. Fra le opere di questo periodo vale la pena ricordare Nantes Triptych (1991) in cui l’artista registra la morte della madre sovrapponendo le immagini a quelle – cronologicamente avvenute nello stesso anno – della nascita di suo figlio. La perdita, il tempo e i suoi segni, le emozioni, sono i corollari di una ricerca artistica che si inoltra nel terreno del mondo interiore.

“Nantes Triptych”, 1992

Emergence (2002), commissionata dal Getty Museum, fa parte di The Passions, una serie tutta incentrata sulle emozioni: dopo la scomparsa dei genitori, Viola ammette di aver avuto bisogno di orientare il suo lavoro in senso più interiore e di dare più spazio alla componente di ricerca spirituale. Di nuovo è la riflessione su un dipinto di Masolino di Panicale che fa da stimolo ad un’analisi sulla struttura e iconografia delle immagini che in questo caso trasformano la morte in un atto di rinascita grazie alla presenza dell’acqua. L’iconografia così come la pratica tecnica della pittura riescono a superare in parte i loro limiti oggettivi di finzioni statiche del reale. Viola spiega con un aneddoto la grandissima capacità dell’arte di trasmettere emozioni, di stimolare un coinvolgimento comune fra spettatore e la rappresentazione artistica: nel periodo della malattia del padre – un avvenimento che lo mette duramente alla prova – si trova per lavoro a Chicago dove, in una pausa, in visita al museo, vede una Madonna piangente del fiammingo Dieric Bouts. I particolari del dolore sono così evidenti e realistici che Viola ricorda di aver cominiciato a singhiozzare in modo incontrollabile. Solo più tardi comprende che, come in uno specchio, l’azione si era replicata fra dipinto e realtà, un effetto che secondo lui dimostra come la funzione dell’arte può cambiare un dato oggetto artistico in esperienza emozionale, interiore e privata.
Una forte connotazione spirituale è la base anche di Surrender, un video del 2001 in cui l’immagine rallentata rende perfettamente la scrittura delle passioni sul corpo – uno maschile e uno femminile in posizione specularmente verticale – in cui i turbamenti leggibili sui volti trapassano come onde nell’acqua in cui entrambi i protagonisti si specchiano e si immergono. La domanda centrale di questo lavoro e dell’intera serie è come gli estremi delle emozioni possano essere rappresentati.
Lo stesso quesito riappare in Four Hands (2001), appartenente alla medesima serie, in cui l’inquadratura di quattro monitor si restringe solo sulle mani di una donna giovane, di un uomo e di una donna di età matura e di una donna anziana. Le diverse fasi della vita si concentrano sulla lettura della pelle arricchendosi però nell’analisi dei gesti ispirati a varie fonti, dalle mudra buddhiste alla tavole chirologiche inglesi del Seicento. Il lavoro può essere considerato come una sintesi di un atlante iconografico che Viola traduce attraverso le tecnologie contemporanee, analizzando fra passato e presente la distanza dei gesti o il suo contrario. Come ripete l’artista, le immagini non possono incarnare o creare il tempo, al contrario delle emozioni rappresentate: il video in questo caso realizza ciò che i pittori classici hanno sempre cercato di raggiungere, la trasmissione dei sentimenti attraverso il tempo.

Un lavoro che non potrà essere visto nella bella retrospettiva che Firenze dedica a Viola in questi giorni – a Palazzo Strozzi e in vari musei e chiese della città, fino al 27 luglio – è Ocean Without a Shore, un video allestito appositamente per la chiesetta di San Gallo a Venezia nel 2007, dove la presenza di tre altari – secondo la tradizione dedicati al contatto fra vivi e morti – diventano un vincolo dell’allestimento, impossibile da replicare. Ispirata al testo del maestro sufi andaluso Ibn Arabi (sec. XII) in cui si parla dell’essenza umana come un oceano senza riva, la videoinstallazione prevedeva tre schermi al plasma su ogni altare in cui alcune persone – filmate in bianco e nero, a bassa risoluzione – camminano dall’oscurità verso lo spettatore; nel momento in cui le figure sgranate attraversano un muro di acqua, sottile e trasparente come una lastra di vetro e percepibile solo nel momento del passaggio, acquistano colori pieni e perfettamente definiti. La connessione fra i due mondi e la metafora della rinascita attraverso l’acqua riepilogano gli interessi tematici più forti di Viola che considera la macchina da ripresa come un occhio sempre aperto, in grado di insegnare a guardare in profondità, un’azione questa che è comune a tutte le pratiche spirituali. In questo modo la tecnologia non deve essere pensata come un fine né interpretativo, né spirituale: come dimostrano questi lavori, essa può costituirsi come uno strumento di analisi del sé e di coinvolgimento di tutti gli esseri umani.

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