Tra rap e letteratura, vita e politica: Murubutu torna all’Under Fest

Scambio di opinioni fra lo storico rapper emiliano e il “collega” Moder, direttore artistico della rassegna underground ravennate

Moder Murubutu Rap

Moder (in primo piano) con Murubutu (a sinistra)

Tra gli ospiti l’ottava edizione di Under Fest – rassegna che celebra lo spirito hip-hop delle origini e la scena rap underground, partita a fine luglio e in corso fino al 10 agosto –,  mercoledì 3 dalla ore 21, al bagno Peter Pan di Marina di Ravenna, c’è anche Murubutu, storico nome della scena italiana, per cui è stato coniato il termine “letteraturap”, qui in una sorta di dialogo-intervista con il “collega” Moder, direttore artistico del festival (insieme a Kenzie) e rapper ravennate, anima tra le altre cose del centro culturale Cisim di Lido Adriano.

Moder: «Chi è Murubutu?»

Murubutu: «Un rapper e un cantautore, che utilizza la tecnica dello storytelling in modo sistematico».

Moder: «Facciamo entrambi parte di una corrente che Joey Badass definisce lyrical rap, che in Italia ha subito trovato una corrispondenza nella nobile storia del cantautorato. Chi ne sono stati secondo te i pionieri in italia?»

Murubutu: «Sicuramente Caparezza e poi Frankie (hi-nrg, ndr), che lo si voglia o no ammettere. Ma secondo te, invece, perché molti dicono, non senza polemiche, che il rap è il nuovo cantautorato?».

Moder: «Sovrapporre i due generi forse è sbagliato, ma entrambi puntano sull’autorialità – anche se a volte nel rap è solo presunta. Rapper e cantautori ci mettono entrambi la faccia, dichiarando con grande orgoglio di essere gli autori, non solo gli interpreti; entrambi scrivono per esigenza e sono riusciti a stravolgere dei cliché: l’uno portando sul palco la propria musica solo con una chitarra acustica, l’altro rivendicando i giradischi come strumenti. Credo poi che il rap abbia il merito di aver portato l’italiano nella musica ovunque, mentre una volta la scena indipendente preferiva evitarlo. E che abbia preso spunto dai grandi cantautori del passato, perché il rap in fondo si nutre del passato e non possiamo non farci i conti. Tu, in generale, come la vedi la situazione attuale del rap?».

Murubutu: «Decisamente florida, è un periodo di grande visibilità del genere, con il mainstream che dona luce anche all’underground. Va però aggiunto che spesso si va in direzioni diverse, lontane dal rap, anche se sempre all’interno del panorama urban. Quindi, per essere onesti, si dovrebbe rispondere che la situazione è rosea nel mondo “simile al rap”. Il rap vero e proprio invece vive una fase controversa, è stimolato tantissimo ma coinvolto non troppo; penso sia solo una fase, su cui però bisognerebbe riflettere».

Moder: «Dal tuo primo disco solista a oggi sono cambiate molte cose: ricordo che venivi visto come un’anomalia nel panorama, oggi il tuo nome riempie invece festival e locali storici per la musica italiana: quali sono stati i passaggi fondamentali di questa crescita?».

Murubutu: «Sicuramente l’aiuto delle nuove tecnologie che hanno garantito un’esposizione che prima, negli anni novanta, non era possibile: era banalmente molto più difficile farsi conoscere. Per quanto riguarda la mia proposta artistica, invece, credo abbia pesato una sorta di accettazione un po’ più trasversale rispetto al rapper classico, cioè il fatto di essere ascoltato e approvato, nel mio piccolo, non solo in ambito hip hop ma anche in altri ambiti musicali. E anche in altri ambiti culturali, compresi quelli istituzionali».

Moder: «Mi è sempre piaciuto il modo in cui riesci a sciogliere citazioni culturali, biografie, romanzi, con delicatezza senza palesare la fonte nella canzone. Quali sono i personaggi che più ti hanno ispirato in questo senso?».

Murubutu Rap

Murubutu

Murubutu: «Sicuramente Flores d’Arcais e poi di personaggi viventi ce ne sarebbero diversi. Se guardiamo al passato invece, filosofi come Max Stirner o scrittori come Emile Zola, nelle loro forme espressive, mi hanno condizionato tantissimo».

Moder: «Sei della cerchia di artisti che ha fatto parte di Under dalla sua fondazione. Come hai visto cambiare il festival negli anni e cosa ci regalerai il 3 agosto al Peter Pan?».

Murubutu: «L’ho visto migliorare, non solo dal punto di vista artistico ma anche nella proposta logistica, organizzativa e fruitiva. Il 3 agosto vengo anche per fare delle chiacchiere, diciamo, per confrontarmi su alcuni temi fondamentali che sono interessanti per chi segue la scena rap e non solo. E poi mi esibirò in qualche pezzo a sorpresa per il pubblico».

Moder: «A parte rari casi, hai sempre tenuto la tua vita privata lontano dalla tua musica. Scelta in controtendenza nel rap, perché?».

Murubutu: «Da una parte per una questione puramente caratteriale: non amo parlare di me stesso, soprattutto nei testi. E poi perché il mio stile deriva dalla letteratura, dove si usa la terza persona. Racconto storie di terzi, che poi confluiscano anche in esperienze, desideri e prospettive personali fa sempre parte del gioco della narrativa».

Moder: «Hai mai avuto la sensazione di aver dato troppo alla musica? Questa cosa toglie tempo e energie a tutto e ti fa correre per l’Italia in lungo e in largo: come la vivi?»

Murubutu: «In realtà no, sono una persona che si organizza molto e penso di aver dato il giusto, non solo a livello di tempo ma anche dal punto di vista psicologico, perché la musica mi aiuta a mantenere un certo equilibrio, che credo di aver raggiunto. Senza di questo, forse sarei più presente nel mondo discografico, ma con un livello qualitativo più basso».

Moder: «C’è mai stato un momento in cui hai pensato di smettere? E per quale motivo non l’hai fatto?».

Murubutu:«Beh sì, negli anni novanta pensavo spesso di smettere, ogni volta che non andava come volevo. Forse anche nel 2013, dopo La bellissima Giulietta e il suo povero padre grafomane (disco del 2011, ndr) ma la verità è che ho sempre fatto musica per un’esigenza personale e quindi non avrei mai smesso, anche se non avessi avuto quel poco di visibilità che ho. Tu, invece, alla luce della tua lunga esperienza nei laboratori, credi che il rap in Italia possa realmente salvarti la vita?».

Moder: «Penso che niente possa salvarci, tranne noi stessi, però anche che l’hip hop dia strumenti di comprensione del mondo. È una lente di ingrandimento, che a volte ti offre an- che strumenti per trasformarlo, il mondo. Trovo che sia una grande arma per gli adolescenti: con l’hip hop diventi il doppio, con un altro no- me che in tanti casi è più vero del tuo nome reale. I laboratori poi sono una grande esperienza di lavoro collettivo e lavoro tra generazioni che servono anche solo per imparare ad impegnar- si, a riscoprire il piacere di fare fatica. A parte gli aspetti artistici, ho visto grandi risultati so- ciali e individuali, che sono stati la conseguen- za di passione e abnegazione».

Murubutu: «Perché secondo te il rap italiano ha un rapporto problematico con i contenuti politici? Prima la retorica sloganistica delle posse, poi il lungo vuoto dei testi gangsta e autocelebrativi, poi riflessioni sporadiche salutate come rivoluzioni conscious e infine l’ultimo caso della trap sedicente brigatista».

Moder: «Credo che sia perché è la società ad avere problemi con la politica, essendo diventata avulsa dalla realtà. In alcuni momenti della storia, invece, la politica e l’arte erano collegate, erano due modi attraverso i quali si poteva trasformare il mondo. Oggi questo non sembra più possibile e ci stiamo abituando a un individualismo sfrenato. Non credo sia un problema solo del rap ma di moltissime arti, perché hanno abbracciato appunto l’individualismo capitalista che è il contrario della “polis” come la si dovrebbe intendere. E in più in Italia è la società tutta, con i vari scandali che ci sono stati, che non crede più nel potere della politica. Non c’è più una visione del futuro, non solo tra i politici. Così salta ogni possibilità di pensarsi insieme, chiunque cerchi di farlo viene visto come un mezzo matto. E in questo momento il rap vuole essere, al contrario, super cool e quindi abbraccia in pieno la retorica capitalista, il rap mainstream almeno sicuramente. In America era diverso, con le questioni sollevate dalla popolazione afroamericana o la vita in certi quartieri. I primi esperimenti delle posse, in Italia, spesso utilizzavano quello stesso linguaggio ma male, per dire cose banali da parte di una generazione che in realtà aveva tutto ed era un po’ anche annoiata. Ci sono molto più proletari adesso che nel periodo posse. Anche questo è un segno dei tempi: il rap come controcultura all’inizio era rivolto ai ceti medi, oggi il rap massificato si rivolge ai ragazzi di strada, che non hanno nulla. Ma proprio nel momento in cui il “proletariato” abbraccia il rap, non si parla più di politica. Proprio quando non c’è mai stata così tanta divisione, così tanto classismo, con la scala sociale bloccata. Ma tutti hanno una gran paura di parlarne, compreso il rap. Che oggi dovrebbe essere preso come segnale, come campanello di allarme».

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