Dal disagio giovanile allo scontro con la legge. E i genitori in difesa

Baby pusher alle medie, marijuana fumata a scuola. Le indagini contro il muro delle famiglie. E nei telefonini si trova di tutto…

Se l’indagine antidroga porta il carabiniere tra i banchi della scuola media allora hai una plastica rappresentazione di come stia cambiando il mondo giovanile. Mini dosi di marijuana vendute a 5 euro nei corridoi e in alcuni casi fumate nei bagni: uno degli ultimi lavori dell’Arma contro lo spaccio, finito sulle pagine di cronaca il mese scorso, ha portato le divise a confrontarsi con uno scenario in cui ragazzini di undici anni facevano acquisti da baby pusher di tredici, o quattordici nel caso di un paio di ripetenti. E diventa difficile chiamarli in caserma per ascoltarli sui fatti perché chi indossa la divisa a sua volta magari è anche genitore e si accorge di aver a che fare con fenomeni di illegalità che si nutrono del disagio dei teenager o forse della famiglia intera. Quello della scuola media, emerso a metà maggio, è il caso limite finora. Ma è dell’estate scorsa un’altra indagine che aveva messo sotto esame ragazzi di 15-17 anni. Fino a qualche anno fa nelle indagini non capitava di trovare spaccio in età così basse, riconosce uno dei militari che ha preso parte all’inchiesta. E mentre lo dice si augura che sia davvero arrivato il punto più basso perché sotto restano le scuole elementari e allora fa paura per davvero solo a pensarci. Succede che la caserma diventi un osservatorio particolare per entrare nelle dinamiche sociali. Prima di tutto c’è la trasversalità del fenomeno. Non c’è distinzione di estrazione sociale, non c’è distinzione di tenore economico. C’è un tratto comune, almeno stando al punto di vista delle divise: una distanza tra genitori e figli. Può essere perché uno è in carcere, può essere perché uno è in carriera, cambia poco: tra quelli rimasti impigliati nei controlli dei carabinieri molti erano lasciati a loro stessi piuttosto che inseriti in una rete di affetti. Così come si è notato che molti dei coinvolti avessero pochi dei passatempi generalmente considerati sani. Quando si trovano di fronte alle domande degli investigatori la reazione dei genitori è spesso la stessa: si barricano sulla difensiva, si schierano a oltranza dalla parte dei pargoli e per prima cosa si preoccupano di trovare un buon avvocato tagliando ogni collaborazione e portando i figli a chiudersi nel silenzio. Atteggiamento conosciuto bene da molti docenti che non indossano una divisa e al minimo rimporovero devono fare i conti anche con reazioni scomposte. Anche se l’ultima indagine lascia qualche ombra sulla figura di chi aveva ruoli di responsabilità nella scuola: qualcuno sapeva e ha preferito fare finta di nulla per evitare danni di immagine? Ma le indagini non si fermano davanti ai silenzi, proseguono, avanzano a piccoli passi. Distrincandosi tra le chat di Whatsapp dove le comunicazioni viaggiano in codice e le dosi da portare diventano dischi musicali poi qualcuno si dimentica e parla della qualità del fumo, la copertura salta e quando l’Iphone arriva nelle mani degli inquirenti è una miniera di informazioni. Non a caso l’hanno capito anche loro, i ragazzini: è capitato che chi indaga si sia trovato di fronte a telefonini intonsi, svuotati di ogni dato in memoria. Magari è bastata una voce per correre ai ripari provando a mettere una pezza che spesso non basta a fermare i mezzi tecnologici a disposizione della procura. Poi succede che indaghi per spaccio e ti imbatti in tanto altro. Nelle serate di sballo alcolico con bottiglie di sambuca comprate all’ingrosso, nei fenomeni di bullismo, nello scambio di foto porno, nelle discoteche utilizzate come babysitter notture. Ma queste sono altre storie. O forse no.

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