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    Categoria: cronaca

In Italia, dalla trap di Sfera al pop della Michielin fino alla quadratura del cerchio di Cosmo

Ci sono cose che succedono e che fanno in qualche modo la storia. Tipo quegli anni in cui Sfera Ebbasta è diventato il primo italiano a entrare nella top 100 mondiale di Spotify pur restando uno sconosciuto per la maggior parte dei suoi connazionali (che ora al massimo si interrogano davanti a cartelloni con la sua faccia nelle metropolitane). È successo poco dopo l’uscita, il 19 gennaio, del nuovo album del 25enne rapper milanese (anzi, di Cinisello Balsamo; anzi, di Ciny, come la chiama lui nelle sue canzoni) che in 24 ore ha superato gli 8 milioni di ascolti in streaming. Fenomeno vero, di quelli esplosi e diffusi senza l’aiuto della radio, della tv o dei talent ma solo grazie al web (e soprattutto su Instagram – che Facebook è ormai roba da vecchi – dove ha circa 1.100.000 follower) e in particolar modo tra i giovani. Pur non facendo musica per ragazzine, come si potrebbe invece dire dei colleghi Fedez e J-Ax, per esempio. Sfera ha un’identità ben precisa (piuttosto evidente anche solo dalla foto qui a fianco), una certa coerenza e semplicemente si ritrova a cavalcare il momento, la moda arrivata prepotentemente anche in Italia (grazie soprattutto a lui) della trap, di cui si autoproclama “king” e con cui dicono abbia ucciso il rap (e lui lo ricorda nella divertente “Bancomat”). Si tratta infatti di una sorta di forma di rap odiata dai rapper “veri”, con autotune in evidenza a pastrocchiare sulle voci, melodie spinte e in bella vista storie di ragazze, trasgressione e soldi, con ricchezza e successo platealmente ostentati. Una sorta di “tamarrismo” all’ennesima potenza, con la sorpresa incredibile che – per quanto sia destinata a restare senza dubbio musica di merda alle orecchie di chi è abituato ad ascoltare rock (una genialata, a questo proposito, chiamare il disco e autoproclamarsi Rockstar) – dopo il trauma iniziale (le parole troncate senza l’ultima vocale, l’utilizzo di termini come boyfriend, dissing, bad bitch e tutto quello che ne consegue) ci si trova di fronte a un disco oggettivamente di ottimo livello e dal respiro internazionale (basti solo citare la presenza di Quavo dei Migos, il gruppo trap più noto al mondo), con suoni per nulla banali, canzoni che le radio potrebbero non avere il coraggio di passare e trovate che lo rendono comunque avventuroso.

Cosa, quest’ultima, che non si può dire invece per quello (2640) tanto chiacchierato di Francesca Michielin, di cui si stanno occupando anche le riviste alternative per questa voglia di portare il suo pop innocuo, nato a X Factor sulla scia di Elisa, un po’ più in là. Il risultato finale resta un prodotto leggerino (nel senso di molto più leggero di quello che crede di essere) con alcuni pezzi ottimamente riusciti (tra cui, ebbene sì, quello scritto da Calcutta) che nel panorama mainstream italiano fa di certo la sua porca figura, però, ecco, senza in realtà il coraggio di prenderne le distanze e restandone quindi in qualche modo imbrigliato.

A vincere la palma invece del miglior disco di questi chiacchierati mesi di una scena italiana mai così liquida – tra rap, rock, pop ed elettronica – è invece a mani basse Cosmo (nome d’arte del piemontese Marco Jacopo Bianchi), che arriva con il suo terzo album (Cosmotronic, uscito il 12 gennaio) a trovare una formula riuscitissima di canzone cantata in italiano su musica elettronica da ballare. A qualcuno potrebbe ricordare i primi Subsonica, ma la differenza sostanziale è che qui non c’è nulla di quelle atmosfere da rock band, qui c’è solo un producer in perfetto equilibro tra la voglia di fare festa e una sorta di inquietudine di fondo, per un risultato che forse non è ancora un capolavoro, ma che in Italia è qualcosa di davvero originale. Applausi.