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    Categoria: società

«Ho scelto un’arte disponibile»

Parla lo street artist Jim Avignon

Cosa ci vuole per diventare artisti? Guardando l’intensità di Christian Reisz in arte Jim Avignon verrebbe da dire l’energia. L’ho incontrato mentre realizzava in una sola giornata il muro all’Hana-Bi, a Marina di Ravenna. Senza curarsi dei bambini con i gelati, delle signore con il pareo che scuotevano la testa e dei tatuati che si fermavano a curiosare, ha terminato senza un solo sbaffo l’opera per le sei del pomeriggio, in tempo per suonare. D’altro canto questa figura cult della Techno berlinese è diventata tale grazie anche alla velocità di esecuzione. A Ravenna è noto anche per aver dipinto un muro in via Tommaso Gulli, in aprile, come anticipazione del festival di street art Subsidenze 2015, che prenderà via il 6 settembre.

Come hai fatto a diventare artista? E cosa ne ha pensato tua madre di questa scelta?
«Mia madre faceva l’insegnante e mio padre il professore universitario per cui la mia formazione da autodidatta li ha messi in crisi. Negli anni ’80 però per noi era un po’ così. Ero influenzato dalla musica più che dall’arte, dalle idee, nessuno andava a scuola veramente, ma c’era una libera circolazione di stimoli. Per anni comunque mia madre sperò che io facessi l’Accademia per diventare insegnante di materie artistiche».

In cosa consistette questa formazione autodidatta?
«La base era che volevo fare l’artista, ma non volevo fare affari con le gallerie. Non mi interessava il mondo dell’arte commerciale e istituzionale. Ero andato a Colonia, città d’arte, e di solito mi ubriacavo tutte le sere. Fino a che un bar che frequentavo mi chiese di riempire un buco che si era creato, visto che l’artista invitato aveva disdetto tre giorni prima. Realizzai dieci quadri in tre giorni (non avevo nulla di pronto, ma dissi che invece ne avevo dieci…). Dopo una settimana un tipo li aveva comprati tutti. Ero veramente felice e decisi che tutto sommato era facile. Ed era quello che volevo fare».

Vivere solo con i bar?
«Beh, quasi. Cominciai a contattare altri bar simili a Berlino e Monaco. Per tre anni girai la Germania così tra party, rave, locali. Arrivavo e in un pomeriggio facevo il lavoro. Vendevo tutto a poco, tipo 100 euro il pezzo. Un’altra cosa che ho scelto, un’arte disponibile».

E tua madre?
«Continuava a sperare che io studiassi. Ma era troppo tardi. Intanto il muro era caduto e la Germania unificata era piena di luoghi abbandonati da esplorare, decorare. Devi pensare che ancora non c’erano scuole di illustrazione, era facile farsi conoscere. Ora tutto è cambiato».


Che cosa è cambiato, il pubblico, gli artisti, il contesto?
«Innanzitutto il lavoro artistico interessa molte più persone. Essendo scomparsi i lavori più tradizionali è diventato un mondo in cui molte più persone vi si avvicinano. Con il web inoltre si comparano con gli altri nel mondo in tempo reale. Imparano più velocemente. Certo c’è anche un però…»

Il rovescio della medaglia?
«Tutti vogliono fare carriera. Diventano pazzi se stanno tre mesi senza un progetto. Incontro molti giovani, perché mi invitano le università a incontrare gli studenti, e mi sembrano una generazione molto competitiva, sentono una grande pressione. Ma bisogna fare tanti errori, altrimenti non si impara».

Vivi ancora tra Brooklyn e Berlino?
«No, sono persona non grata negli Usa. Per evitare di fare la fila all’ufficio immigrazione avevo preso un visto da giornalista per cinque anni… Poi anche loro hanno iniziato ad usare internet e quando sono andato per il rinnovo sapevano che avevo mentito e dipinto una serie di muri a NY. Non erano contenti. Ma in fondo è stato un bene. Vivere nella Grande Mela è talmente affascinante che non ne esci mai. Invece da quando sono tornato a Berlino viaggio molto di più. Se poi ha visto la gentrificazione di New York stare nella capitale tedesca ti sembra una passeggiata. Ero andato via perché mi sembrava una città che aveva perduto l’anima, era diventata troppo commerciale. Sono tornato e ne ho scoperta un’altra. È una città fatta da tutto il mondo, senza la pressione degli Stati Uniti».

Questa Germania della Merkel ti sembra che stia cambiando l’identità di Berlino o è sempre un laboratorio?
«Stare a Berlino non è stare in Germania. È sempre stato così, anche nel secolo scorso. È la città del non finito, delle opere intraprese e mai completate. È una piattaforma, non un luogo in cui fare soldi, però forse voi da qui avete una visione più chiara, quando sei immerso in un luogo non lo vedi…»

Com’è lavorare fuori dal sistema delle gallerie? Non ti preoccupa?
«Non ho abbastanza fantasia per preoccuparmi. Sono un’auto che ha bisogno dello stimolo dell’impellenza per accendersi: le idee migliori mi vengono perché vivo così. C’è chi preferisce il mondo dei collezionisti, ma io detesto andare alle loro feste e fare l’artista quasi buffone. Preferisco vendere una singola opera a una singola persona comune».


Cosa pensi invece di questa attenzione planetaria alla Street Art che fino a pochi anni fa era brutta, sporca e cattiva e ora coccolata anche dalle istituzioni?
«Lo Street Artist attrae tutti. Cittadini, politici, intellettuali. Ci sono esempi che dimostrano che se un luogo diventa più bello è più facile viverci. I problemi non scompaiono, certo. Prendi ad esempio San Paolo in Brasile… Lì hanno vietato anche le pubblicità commerciali per le strade, ma ora si sono inventati gli Human Commercial, uomini pagati per portare i cartelli pubblicitari. Quello che vedo comunque nel fare della Street Art è che si è perso l’aspetto sociale a favore di un approccio puramente estetico. Datemi un grande muro, tutto il resto non mi interessa è piuttosto comune tra molti artisti».

Sei una persona felice?
«Ho paura a dirlo…ma sì. Sono felice (sorride imbarazzato). Sono passato attraverso il dolore e le sconfitte, ma sono entusiasta di quello che faccio. Amo la musica. Conosco il lato oscuro. Ma sono felice…»

Non sembri un artista tedesco insomma…
«(Scoppia a ridere) questo è proprio vero, tant’è che negli Usa mi prendevano sempre per francese. Mi piace mescolare le carte, anche la mia musica è così, dietro un suono divertente ci sono parole che parlano di altro».

Un suggerimento per un giovane artista?  
«Non ascoltate gente come me. Non chiedete. Cercare di essere differenti. Non dovete essere migliori, ma diversi. Fate l’opposto di quello che fanno gli altri e che funzionano».

In fondo, non è questo l’underground? Ma per approfondire potete consultare l’alfabeto di Jim presente sul suo sito http://jimavignon.com