Il trentenne Paolo Ridolfi lavora a Londra per la Airbus, appaltatrice dell’Esa nella missione Exomars: è il responsabile della mobilità del rover Rosalind Franklin che partirà per il pianeta rosso nel 2020. «Visto da fuori faccio un normale impiego d’ufficio al computer»
Le sei ruote da 30 cm di diametro del veicolo che fra un anno sarà lanciato dalla Terra per raggiungere Marte e cercare tracce di vita, prima missione con questo obiettivo sul pianeta rosso, hanno anche un padre ravennate. L’ingegnere Paolo Ridolfi, originario di Piangipane e cresciuto a Ravenna, è il responsabile tecnico del sistema di mobilità del rover – termine inglese che significa “vagabondo” con cui vengono identificati i veicoli di trasporto sui corpi celesti – progettato e costruito dalla Airbus per la seconda fase della missione Exomars partita con il primo lancio nel 2016.
Due metri e mezzo di lunghezza e due di larghezza, per un peso terrestre di 300 kg che si riducono a un terzo su Marte: «Immaginatelo come qualcosa di simile a una macchinina sui campi da golf». Con qualche competenza in più: «Per la prima volta abbiamo un veicolo specificatamente pensato per trovare la vita. Finora sono state trovate molecole organiche, tracce di acqua ghiacciata, metano. Ma non ancora un batterio che mostri l’esistenza della vita. Rosalind avrà un trapano capace di scendere a due metri di profondità: se c’è qualcosa di vivo riparato nel sottosuolo possiamo trovarlo».
Decollo previsto a luglio 2020 dal Kazakistan, quando si aprirà la finestra di un paio di settimane utile per sfruttare la posizione dei due pianeti nelle rispettive orbite: «Non si può mancare quel momento altrimenti quello successivo sarà dopo due anni e mezzo». Atterraggio su Marte sette mesi dopo, se tutto andrà bene. Cautela obbligatoria dopo il caso Schiaparelli: il lander della prima fase della missione Exomars si è disintegrato a ottobre 2016 nel tentativo di atterraggio. E la pressione sul team è ulteriormente salita, come se ce ne fosse bisogno: «Gli unici che hanno dimostrato di saper atterrare bene su Marte finora sono gli americani. Un altro fallimento non verrebbe preso bene dall’Esa. Saranno molto intensi quei famosi “sette minuti di terrore”». È questa la locuzione, che lascia poco margine all’interpretazione, con cui nel mondo aerospaziale si indica la fase finale del rientro sul pianeta Marte: «Ogni comunicazione verso la Terra impiega più di 7 minuti per percorrere la distanza quindi a Terra sapremo se è andata bene o male solo a cose fatte, senza possibilità di intervenire. Tutto deve avvenire in autonomia in un ambiente violento: temperature elevatissime, forti sollecitazioni meccaniche e turbolenze».
Nell’auspicata eventualità che Rosalind poggi le ruote sana e salva, poi comincerà l’esplorazione. Almeno un anno ma il design non ha limiti temporali e se sarà necessario potrà continuare: «Il rover è progettato perché sappia muoversi da solo altrimenti se dovessimo pilotarlo dalla Terra, con i tempi di trasmissione dei segnali, ci impiegheremmo troppo per raccogliere i campioni». Che verranno analizzati dal laboratorio costruito dentro al rover, capace di prestazioni elevatissime ma mai come le macchine a disposizione sulla Terra. Ed ecco che arriviamo all’altro potenziale contratto di Airbus con Esa e Nasa: portare sulla terra dei campioni di suolo marziano. Ma questa è un’altra storia: l’obiettivo è riuscirci prima del 2030.
Rosalind troverà compagnia sulla terra rossa: tra operativi, dismessi e distrutti sono 14 gli apparecchi che sono arrivati sulla superficie del pianeta. Rischiamo di inquinarlo ancora prima di metterci piede? «È un tema importante, anche se non così critico come quando parliamo dell’orbita terrestre. I satelliti in orbita intorno a Marte sono pensati per polverizzarsi all’ingresso nell’atmosfera mentre le parti che atterranno sono progettate per non contaminare l’ambiente: siamo attenti a evitare ogni carico biologico, perché potrebbe essere un disastro per quel sistema ma soprattutto visto che andiamo a cercare tracce di vita salterebbe tutto il senso della missione se quelle tracce le avessimo portate con il veicolo».
Al telefono con un ingegnere che sta progettando uno sbarco su un altro pianeta è inevitabile chiedere il senso di questa nuova corsa nello spazio: «Ci sono i motivi generali legati a qualunque missione che spinge l’umanità al limite delle sue possibilità: il ritorno scientifico e quello tecnologico, così come è stato con la missione Apollo sulla Luna che ha poi permesso sviluppi importanti da cui discendono la microelettronica, i cellulari, alcune macchine mediche. Poi ci sono i motivi specifici per Marte: è un fratello della Terra che ha avuto condizioni simili alle nostre e non è chiaro perché ora sia così diverso. Se pochi miliardi di anni fa era in equilibrio con la Terra, cosa è successo? E poi credo che ci sia la voglia di soddisfare l’istinto esplorativo che spinge l’uomo a superare i propri limiti». Ci andrà anche l’uomo? «Penso e spero di sì. Ma fin quando non c’è una missione con quell’obiettivo non si può dire con certezza».