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Quando in piazza San Francesco «si facevano tutti»: la Ravenna dei tempi di “SanPa”

I ricordi del giornalista Nevio Galeati e dell’attore Gigio Dadina, da Berlinguer in piazza fino al collettivo studentesco

Fare il giornalista a Ravenna, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, voleva dire anche rischiare di trovarsi davanti a un morto di overdose. «Furono almeno 4-5 in pochi mesi, nel 1979», ricorda Nevio Galeati, che nel 1977 inizia a fare il corrispondente a Ravenna dell’Unità, dove resterà per quasi un decennio, prima di diventare una storica firma del Carlino Ravenna.

«La prima cosa che notavi sui giornali dell’epoca era la cronaca, l’elenco dei morti e dei sequestri – continua Galeati –. Cavalcando l’onda di denuncia popolare, della Ravenna “borghese”. Generando naturalmente anche dei conflitti: ricordo bene le scritte sui muri contro il cronista del Carlino dell’epoca, Carlo Raggi. All’Unità a quei tempi abbiamo cercato di fare anche un’analisi del perché stesse capitando quella roba lì. Scrissi per esempio un pezzo sulla “droga fuori dai luoghi comuni” (nella foto, ndr): la gente era abituata a vedere il male in piazza San Francesco, dove si bucavano, ma ci si sarebbe dovuto chiedere anche da dove arrivasse, quella droga. Chi la portava e perché. Sicuramente le dosi erano tagliate male, piene di robaccia, pericolose. Ma non sembrava esserci grande interesse verso gli spacciatori, facevano più discutere i ragazzi che si bucavano sotto i portici».

Ravenna divenne quasi un caso nazionale. E il tema entrò naturalmente anche nel dibattito politico, con una certa area della sinistra che vide nell’arrivo della droga pesante il tentativo di allontanare i giovani dalle lotte popolari. «Venne anche Berlinguer – prosegue Galeati – a parlare in piazza contro la droga. Arrivavano a Ravenna gli inviati dei giornali nazionali, amplificando il problema. E scrivendo anche fesserie. Come quella delle migliaia di cucchiaini “forati” dei bar, quando invece era stata solo l’ingegnosa idea di un barista vicino a piazza San Francesco, che con un trapano aveva bucato qualche decina di cucchiaini per evitare che glieli rubassero».

«A Ravenna – continua nella sua analisi Galeati – ha pesato forse questa sproporzione tra il benessere raggiunto e quello solo sospirato dai giovani. In più c’era un canale preferenziale, il porto, allora non recintato: arrivava di tutto, si dice anche armi. E infine c’erano camion che venivano dalla Puglia, dove la droga era nascosta nei cerchioni delle gomme, come mi hanno confermato anni dopo durante un corso di scrittura per detenuti…».

Il dibattito in città a quei tempi si concentrò in particolare sulla presenza vistosa dei drogati in pieno centro, piazza San Francesco appunto. «Il problema per molti era diventato quasi solo quello di spostarli da un’altra parte, non che ci fossero. Il servizio pubblico comunque stava sperimentando molti metodi di disintossicazione, provarono il metadone, i ragazzi che vollero uscirne ci riuscirono. Quelli che dormivano nella fontana dei giardini pubblici, tanto per dire, no». Per quelli, forse, l’unica soluzione era San Patrignano, tornata oggi prepotentemente nel dibattito pubblico dopo la docu-serie su Netflix. «Ricordo che Muccioli venne a un incontro a Ravenna in quegli anni e disse, informalmente, che bisognava trattare i drogati come i cani… Era il periodo in cui anche l’allora vescovo Tonini cercò di creare una comunità a Ravenna, da affidare al Ceis (che tuttora si occupa di politiche riabilitative, ndr)».

Quali episodi restano, di quegli anni? «Ci sono tanti ricordi terribili, il ragazzo che abbiamo trovato morto in una vasca da bagno, l’altra che morì carbonizzat a causa dello spinello dopo una sbronza; poi “Topone”, come era chiamato, morto in carcere, dove la droga arrivava comunque. E le rapine con le siringhe infette, quando scoppiò l’allarme Aids; gli omicidi per lo spaccio sui lidi, ragazze – conclude Galeati – che da un giorno all’altro vedevi prostituirsi per una dose…».

A ricordare quei tempi di fine anni settanta, a Ravenna, è anche Gigio Dadina, volto storico del mondo della culturale locale, fondatore e autore del Teatro delle Albe: «Da una parte c’era la piazza dei fighetti di Ravenna, piazza del Popolo, dall’altra la “piazzetta”, piazza San Francesco, dove c’eravamo noi del collettivo studentesco e, quasi in contrapposizione, i drogati».

«Quando arrivavano le 6 o le 7 di sera, in “piazzetta” si facevano tutti – ricorda Dadina –. Ho questa immagine di una violenza tremenda, di “loro” che si pulivano il sangue nelle colonne, ho continuato a sognarla per anni. Ricordo ragazze che fino a un anno prima erano tue amiche che avevano iniziato a battere, per trovare i soldi per l’eroina. Io poi sono cresciuto al villaggio Anic e lì praticamente è scomparsa una generazione a causa della droga. È avvenuto tutto in maniera abbastanza improvvisa, come un incendio che è divampato. Un malessere che emergeva con violenza, forse la contrapposizione alla generazione dei padri che si è incanalata in maniera autodistruttiva».

Dadina, invece, ha provato prima a fare «il rivoluzionario di professione. Ma è stata una pia illusione. Avevo finito di andare a scuola – ricorda –, lavoravo in fabbrica e mi ero unito al collettivo studentesco, avevamo occupato la Casa dello Studente, eravamo in cento-duecento persone, non legate alla giovanile comunista, neppure alla sinistra extraparlamentare: non eravamo inquadrati. Condividevamo la stessa piazza con coetanei che avevano fatto una scelta autodistruttiva, ma a cui eravamo vicini, forse nella disperazione in un certo senso. Con loro era impossibile parlare, non c’era comunicazione. Era più forte di loro. Ricordo questi due ragazzi della Ravenna bene che si sposarono e avrebbero dovuto partire in viaggio di nozze in furgone, verso l’India. Ma sbatterono vicino alla piazzetta e non ripartirono più, continuarono a farsi, andando in giro a chiedere soldi…».

Poi è arrivata la morte di Aldo Moro, «che ha chiuso la mia breve esperienza politica – termina Dadina –. E mi sono avvicinato al teatro, andando a vedere gli spettacoli di Ermanna e Marco (Montanari e Martinelli delle Albe, ndr) con cui è nata subito una sintonia».