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    Categoria: cultura

Quel Sol dell’avvenire che sorse in Romagna 

Tra letteratura e politica, Evangelisti ha concluso la trilogia
ambientata in Romagna tra fine Ottocento e metà Novecento

Valerio Evangelisti chiude con Nella notte le stelle ci guideranno l’imponente trilogia Il sole dell’avvenire in gran parte ambientata in Romagna (per alcune vicende si arriva a Bologna e Molinella, ma non oltre) in cui racconta il periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla fine della seconda guerra mondiale. Si tratta di un dettagliatissimo affresco storico che racconta la nascita del socialismo, della coscienza politica di classe, delle cooperative, del sindacato, fino, in questo terzo tomo, all’avvento del fascismo e al riscatto della Resistenza. Un lavoro enorme che dal 2013 ha impegnato il noto scrittore bolognese il quale è riuscito nella non semplice impresa di unire a una vicenda narrativa un certosino lavoro di ricostruzione storica, in un mix potente e senza precedenti. Valerio Evangelisti sarà ospite al circolo Prometeo di Faenza il 23 aprile alle 18.

Valerio, il primo tomo nasceva da studi che avevi fatto per la tua tesi di laurea, come ti sei documentato invece per quest’ultimo?
«In questo caso sono ricorso a una bibliografia gigantesca, fatta di volumi e libri disponibili a tutti, ma anche di materiali più difficili da reperire, come opuscoli e libri, ne ho la casa sommersa. Per esempio ho utilizzato un libro di quasi 2mila pagine di un abitante di Tredozio che ha impiegato quarant’anni a scriverlo, e se l’è autopubblicato, in cui racconta delle vicende tra Modigliana e Tredozio e Faenza. Per fortuna che la vostra biblioteca (di Ravenna, ndr) ha messo online l’ultima annata della Romagna socialista. Per il primo e in parte per il secondo tomo è stato più semplice perché avevo conservato collezioni di giornali dell’epoca in microfilm a cui ero ricorso durante i miei studi e che mi sono stati utilissimi. Ma sì, sarebbe faticoso stilare una bibliografia davvero completa».

In tutta la trilogia hai scelto protagonisti che hanno incrociato le sorti politiche dell’epoca che vivevano senza essere in prima linea, offrendo così anche al lettore uno sguardo laterale e molto concreto. Ma come nascono? Come li hai resi compatibili e coerenti con il contesto dell’epoca nei loro comportamenti?
«Li ho inventati basandomi su storie reali che avevo ascoltato, su vicende familiari realmente vissute. La mia stessa famiglia era politicamente molto composita, da parte di mia madre erano tutti socialisti, da parte di mio padre erano invece popolari, diciamo protodemocristiani. E ci sono stati anche zii o cugini squadristi. Una situazione per la verità piuttosto comune, molte famiglie erano divise…».

Tra tutti, Destino è quello forse a cui spetta la sorte più avventurosa perché si trova a viaggiare tra gli esuli a Parigi e poi a finire a combattere nella guerra civile spagnola tra le file degli anarchici, peraltro in rotta con i socialisti…
«Lui nasce in particolare da un libro intitolato Romagnoli antifascisti in esilio pubblicato negli anni 70 in cui c’è una larga sezione scritta dal cesenate Sigfrido Sozzi, figlio di un eroe della Resistenza, che ha dedicato al tema un saggio di cento e passa pagine. E L’Avanti che usciva in Francia (ce n’era anche uno “svizzero”) pubblicava le note di romagnoli andati a combattere in Spagna con tanto di racconto di una corrida (come nel romanzo stesso, ndr). L’ispirazione viene da lì».

Dal tuo libro sembra emergere l’errore dei socialisti nel non volere rispondere con la violenza alla violenza fascista, negli anni Venti. Oggi c’è chi, come Enrico Mentana, dice che stiamo facendo lo stesso errore con i terroristi. Sei d’accordo?
«No, non vedo sinceramente analogie. Il fascismo fu un fenomeno interno, che almeno in parte nasceva dalle file dei partiti di sinistra, il terrorismo mi sembra si muova su un terreno molto più ampio. L’errore che fecero i socialisti fu credere che lo Stato avrebbe difeso la legalità, mentre si trattò di una sorta di colpo di stato in cui nonostante il Parlamento fosse in maggioranza socialista, le Prefetture e le forze di polizia protessero i fascisti e lasciarono che i socialisti venissero massacrati. Massarenti, così come lo stesso Matteotti, commise un errore madornale nel farsi troppi scrupoli e gli altri ebbero gioco facile».

Altro elemento che emerge con particolare nitidezza è che il fascismo comportò non solo una regressione in termini di diritti e di libertà individuali, ma anche di condizioni di vita ed economiche.
«È così. Si torna indietro rispetto ai patti colonici che erano stati conquistati durante il biennio rosso. Vengono ripristinate mezzadrie sotto il 50 percento e le famiglie erano costrette a chiedere al padrone perfino il permesso di sposarsi, visto che quest’ultimo aveva la facoltà di decidere l’entità delle famiglie ».

La riflessione spontanea è che nessun diritto è acquisito per sempre e che ci sono momenti in cui si può regredire. Sul lavoro, se pensiamo alla stagione degli anni Settanta, si potrebbe dire che anche oggi assistiamo a una regressione… ma tu hai già deciso di non raccontarlo, giusto?
«Non voglio parlare dell’oggi perché non mi ci riconosco, ormai sono rimasto fuori dal tempo, ma non voglio nemmeno parlare di ieri. Sono nato nel 1952 e non voglio trattare epoche coeve alla mia esistenza, non le valuterei con la dovuta distanza. Ma quello che dici è vero: non vedo certo un grande progresso, e mi sembra si sia raggiunto molto meno di quanto si aspettava chi combatteva il fascismo. Io suggerisco riflessioni che mi auguro che il lettore faccia, ma non ho le soluzioni».

Ma cosa vedi nell’orizzonte della sinistra di oggi?
«Non molto, a dire il vero. Magari ci si potrebbe rallegrare dal fatto che i partiti comunisti sono una quindicina, sono ormai più i partiti dei comunisti. E mi sembra che i tentativi di rimettere insieme le varie realtà stiano fallendo uno dopo l’altro. Mi sfugge qualcosa della loro sostanza, mi sembra che ci sia il fascino della sigla, dell’appartenenza ma non un reale movimento alle spalle».

Dalla trilogia viene però fuori che il male delle divisioni a sinistra risale alle stesse origini del movimento e in realtà non trova mai soluzione.
«Sì è vero, nel secondo volume per esempio ci sono socialisti massimalisti e integralisti, chi mai potrebbe dirlo oggi, e invece era una corrente importante tra molte altre. E però allo stesso tempo c’era una grossa compattezza di classe negli strati subalterni e alla fine se c’era uno sciopero della Cgil vi si aderiva in massa, a prescindere dalle distinzioni. Oggi mancano addirittura gli scioperi. Manca una visione di cosa poter fare e di come agire che mi convincano del tutto. Ma io sono solo un osservatore».

Ne Il sole dell’avvenire il movimento socialista tramite le cooperative e il sindacato riuscì a incidere molto concretamente nelle vite delle persone comuni, come i tuoi personaggi, che delle distinzioni tra correnti si interessavano ben poco… Cosa è rimasto oggi?
«Beh, oggi le cooperative si può dire che abbiano trionfato, no? Hanno perfino un ministro! Anzi, abbiamo la sinistra al governo (anche se solo a dirlo mi scappa da ridere) che dice che c’è lavoro per tutti mentre le coop sembrano accettare una completa assimilazione con l’impresa capitalistica. E pensare che in origine non esistevano figure che non fossero soci, le cooperative erano nate esattamente per superare il lavoro salariato. Oggi è il socio la figura mancante, a meno che per socio non si intenda chi ha una tesserina per gli sconti. L’unica eccezione ormai sono alcune piccole cooperative di giovani, ma sono appunto realtà molto piccole».

A proposito di confronti tra passato e presente. In campagna si aprivano le porte agli sfollati, ai profughi di allora in fuga dalla guerra. Perché oggi invece non siamo più capaci di fare una cosa simile?
«Decenni di cinismo professato e propagandato hanno avuto il loro effetto. Oggi si sentono frasi che solo dieci anni fa non sarebbero state ammissibili. Si dice sempre che la sinistra è morta con la caduta del muro di Berlino, ma invece è scomparsa con la guerra nella ex Yugoslavia, quando si è deciso che la guerra poteva essere progressiva, democratica, preventiva, lecita. A furia di guerre lecite, si spostano interi continenti e nessuno sa come rimediare, bisognerebbe ripensare tutto. E così scegliamo la via più facile, respingiamo. Perché la verità è che queste persone non sono ritenute esseri umani: fattori marginali come l’appartenenza etnica o la religione diventano fondamentali per fare distinzioni».

Eppure, in passato, nemmeno vent’anni di fascismo riuscirono a spegnere un’idea di solidarietà umana, soprattutto in Romagna. Racconti infatti che qui il fascismo ci mise più tempo e faticò maggiormente ad attecchire…
«È vero, ma perché in Romagna c’era una società diversa, le cooperative erano serie, i lavoratori avevano avuto effettivi benefici dalle lotte straordinarie che avevano portato avanti. Il fascismo ha buttato giù le pareti ma qualcosa non si è spento. E appena è iniziata la lotta di Resistenza ha potuto contare su 4mila persone organizzate nei cosiddetti Gap che facevano attentati, ed è subito diventata di massa con brigate partigiane organizzate come veri eserciti. Gente capace di combattere la notte e il giorno dopo andare al lavoro. Questo perché qui il consenso al fascismo era stato labile e non così profondo come è stato altrove».

Di questo c’è sufficiente memoria?
«No, non credo proprio. La memoria viene coltivata solo dagli specialisti, per questo ho scelto di scrivere un romanzo e non un saggio».

Come vedi l’ipotesi di un centro ricerche o di un museo del Fascismo a Predappio di cui tanto si dicute?
«Dipende da cosa hanno in mente: se è un museo serio che non si presta al culto ma all’esame critico, allora perché no? Il timore è che diventi un luogo di coagulo e di apologia, cosa di cui Predappio non ha proprio bisogno. Va chiarito qual è il comitato che si fa garante di una cosa del genere».

Eppure tu non fai dei partigiani eroi senza macchia e senza paura. Non nascondi che ci furono vendette e processi alquanto sommari…
«Mi ha sempre scandalizzato l’apologia del nuovo Risorgimento. Si è trattato di una guerra civile piuttosto selvaggia che andava raccontata e spiegata. Per fare un esempio, non si doveva negare che ci fosse stato un massacro di fascisti a Codevigo, ma andava fin dall’inizio accompagnato da una spiegazione. Preferendo star zitti, si rischia di trovarsi disarmati quando arriva il Pansa di turno. C’era una guerra in corso, i nemici si facevano sempre più sanguinari e c’era anche il ricordo di quello che era successo vent’anni prima, difficile dimenticare per chi aveva avuto un padre, un fratello ammazzato».

Un’ultima domanda: come dobbiamo considerare Silvio Corbari? Un eroe o un matto?
«Un romagnolo. Aveva il gusto dello scherzo, era coraggioso, usava un linguaggio da osteria e nello stesso tempo era un simbolo e una leggenda tanto che lo dovettero impiccare due volte per farlo morire, in piazza a Castrocaro e poi a Forlì. Direi quindi di metterlo tra gli eroi. Era un personaggio singolare, ma romantico, un Che Guevara».

Ma se Corbari era un Che Guevara, il ravennate Bulow chi poteva essere?
«Sarebbe stato Fidel Castro nel suo piccolo. Era uomo del partito che imponeva una disciplina ferrea e organizzò un esercito, molto diverso da Corbari, ma erano due comunisti entrambi. E due romagnoli».