Reviati e la verità del fumetto

Parla l’autore di Morti di sonno e Sputa tre volte

Con il precedente Morti di Sonno ha raggiunto la fama internazionale e con questo Sputa tre volte, sempre per Coconino Press, sta confermando le ottime recensioni e anche le vendite. Davide Reviati è un fumettista e illustratore ravennate classe 1966, tuttora residente in quello che oggi viene chiamato Quartiere San Giuseppe (l’ex villaggio Anic costruito da Mattei per accogliere i lavoratori del petrochilmico negli anni Cinquanta), che tra un disegno e l’altro si batte per salvare gli alberi del quartiere. Lo incontriamo a fine giugno in uno dei luoghi da non perdere della città dei mosaici: il grande parco che si estende ai piedi del mausoleo di Teodorico.
Davide, soddisfatto di come sta andando il libro a qualche mese dall’uscita?
«Molto soddisfatto. Anche perché, data la mole, per l’editore è stato un rischio e la tiratura di partenza è stata più alta del solito. Nonostante questo, pare sia imminente una ristampa. E anche le recensioni sono state molto positive, mi sembra che in generale abbiano colto aspetti che nemmeno io ero così consapevole di aver messo nel libro. Per esempio molti hanno dato rilievo alla presenza di John Wayne, vedendo un valore simbolico rispetto alla figura paterna che io non avevo considerato».
Eppure molti tuoi personaggi sembrano assumere un valore simbolico che va oltre la storia che racconti.
«Forse sì, ma se accade non è perché lo decido a tavolino, non è una cosa programmatica: a guidare la scelta dei personaggi e delle situazioni è prima di tutto un sentimento di empatia, che poi diventa spesso un’eco che, questo sì, mi pare rimandi a personaggi e situazioni emblematiche e universali».
Da dove nascono le tue storie e i tuoi personaggi? Quanto vissuto c’è?
«Credo sia impossibile prescindere dal proprio vissuto, anche se questo non significa necessariamente comporre racconti autobiografici. Non so nemmeno spiegare esattamente perché abbia sentito la necessità a un certo punto di parlare di rom. In effetti da bambino avevo conosciuto una famiglia sinti, che viveva vicino a noi, e forse mi avevano lasciato qualcosa nel profondo di irrisolto…»
La questione rom è centrale nel tuo libro ed è una delle questioni forse più rimosse da un serio dibattito culturale e storico in questo paese. Tu racconti la storia di una famiglia e insieme la storia con la S maiuscola di questo popolo perseguitato. E però riesci a non farne un santino, insomma nessuna tentazione “buonista”, i rom si mostrano nelle loro profonde contraddizioni.
«Sì, per quanto riguarda la documentazione, mi è sembrato necessario approfondire, una forma di rispetto. Non si può parlare di ciò che non si conosce. Poi devo ammettere che mi sono fatto prendere e ho proseguito ben oltre le necessità funzionali del racconto. Per quanto riguarda il non averne fatto un “cliché”, beh, è qualcosa che mi fa piacere sentir dire perché il rischio era molto alto. Ma ho voluto correrlo, forse anche in modo incosciente, per cercare di restituire qualcosa di vivo e non schematico».
E in effetti, nonostante l’importante documentazione, nonostante la sottostante e inevitabile denuncia, questo non sembra un libro di denuncia… Sembra tutto semplicemente necessario a raccontare la storia di un incontro tra “gagi” e rom che intreccia una storia di formazione.
«Sono molto felice che tu dica questo, perché è quello che speravo. Non ho scritto di rom per aderire astrattamente alla causa dei cosiddetti diseredati, anche se non potevo eludere molti  aspetti sociali e storici legati alla questione dei rom. Ma volevo farlo raccontando delle storie, lasciando che le cose uscissero da sole nelle pieghe del racconto, non mettendomi sulla cattedra e puntando il dito. Credo sia un fatto di indole, non mi interessa fare libri che nascono a tavolino per denunciare, finirei per diventare didascalico e in fin dei conti finto…».
Ma che cos’è la verità per un fumettista?
«Credo sia innanzitutto l’onestà verso se stessi quando si inizia a scrivere un libro. Non ha nulla a che fare naturalmente con la realtà…»
Eppure nei tuoi libri c’è anche molto di reale.
«Sì, certo, come ho già detto non credo si possa raccontare prescindendo dalla propria esperienza personale. La vita, la realtà è così ricca e multiforme che il vero problema è semmai togliere, credo che la differenza la faccia il setaccio attraverso cui si sceglie e si filtra cosa raccontare, che poi è la tua sensibilità personale».
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
«Io leggo molto, ma quando ho bisogno di ritrovarmi, torno al novecento italiano: Pavese, Silvio d’Arzo, Fenoglio. Sono autori che mi aiutano a tenere la bussola».
E i fumettisti? Stiamo finalmente superando il gap che ci ha sempre caratterizzato, rispetto per esempio alla Francia?
«No, per quanto riguarda il mercato la Francia continua ad avere numeri molto maggiori, ma è vero che la situazione è molto cambiata e in meglio. Oggi grazie alla moda del graphic novel il fumetto è più diffuso e tutti sanno che con il fumetto si può raccontare anche qualcosa che non sia Topolino o Tex Willer. Lo dobbiamo sicuramente ad autori come Gipi e Igort. Tra i miei riferimenti ci sono naturalmente Hugo Pratt e Pazienza, mentre tra i contemporanei apprezzo molto il lavoro di Andrea Bruno e Piero Macola, sento una vicinanza profonda nei motivi più che nell’esito».
Cosa ne pensi del fenomeno Zerocalcare? Quanto sta contribuendo?
«Non ho mai avuto occasione di incontrarlo e non ho ancora letto Kobane Calling, ma il suo lavoro mi piace e la sua è una voce importante. Mi sembrano interessanti e impegnate anche le sue commedie, è riuscito a rappresentare un mondo e a farsene portavoce, un po’ come Andrea Pazienza con la sua generazione. Del resto trovo mal posta la polemica sugli scrittori che non sarebbero impegnati perché non scelgono temi politici. Si può essere impegnati scrivendo di qualsiasi cosa e con qualsiasi genere, a fare la differenza è lo sguardo di chi scrive. Pensa a Billy Wilder…».
Segui il graphic journalism?
«È un fenomeno molto interessante, e anche se al momento non mi pare stia allargando le potenzialità del linguaggio del fumetto, non escludo che possa accadere in futuro».
Da ravennate e fumettista: come valuti il fatto che il festival Komikazen abbia traslocato a Rimini perché, dicono gli organizzatori, non c’erano le condizioni, non solo e non tanto economiche, per continuare a Ravenna?
«Paradossalmente sono stato ospite per la prima volta a Komikazen proprio quest’anno a Rimini. Ma l’ho sempre frequentato e naturalmente mi dispiace, da ravennate, e credo che da parte di un’amministrazione sia a dir poco miope lasciarsi sfuggire una manifestazione di quel calibro».

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