«Un “Barbiere di Siviglia” contemporaneo, per ridere delle nostre nevrosi»

Il regista Lugi De Angelis (Fanny & Alexander) parla del nuovo allestimento al debutto a Rovigo, atteso a fine aprile a Ravenna. «Mi sono divertito tantissimo. Da bambino ero innamorato di quest’opera, la conoscevo a memoria»

Barbiere Di Siviglia Opera De Angelis

Il Barbiere di Siviglia – nuovo allestimento del Teatro Sociale di Rovigo in collaborazione con Fanny & Alexander, coproduzione fra Teatro Alighieri di Ravenna, Teatro Verdi di Pisa, Teatro Pergolesi di Jesi e Teatro del Giglio di Lucca – è il nono titolo di teatro musicale (partendo da Il flauto magico di Mozart fino al recente Lohengrin di Wagner) con cui si è confrontato il regista e fondatore dei Fanny & Alexander (insieme a Chiara Lagani) Luigi De Angelis.
A Ravenna, dopo il recente debutto a Rovigo, lo vedremo all’Alighieri il 21 e 23 aprile, e per prepararci a dovere abbiamo fatto due chiacchiere con lo stesso De Angelis.

Cos’è per te quest’opera rossiniana?
«Quando ero bambino ero innamorato del Barbiere di Siviglia, forse per via della sua giocosità molto forte. Avevo una doppia audiocassetta che ascoltavo continuamente, la conoscevo a memoria, è una delle opere che ho più ascoltato e amato. Ha davvero stimolato molto la mia fantasia. Quando Angelo Nicastro di Ravenna Manifestazioni mi ha proposto di farne la regia, a settembre del 2022, ho accettato con grande entusiasmo, mi sembrava anche un modo per onorare uno dei miei battesimi all’opera».

Luigi De Angelis Regista

Il regista Luigi De Angelis

Che differenza c’è tra la regia di un’opera e quella di un lavoro teatrale?
«Per me è stato sempre come fare opere liriche, perché i Fanny & Alexander hanno comunque sempre messo la musica al centro di tutto, intessuta con la drammaturgia. Una cosa che ha sempre detto Chiara Lagani, e che io sposo completamente, è che la musica è la tessitura tra tutti i piani espressivi. L’unica vera differenza è che quando si fa un’opera così conosciuta come Il Barbiere di Siviglia bisogna tenere in mente che l’80% del pubblico ha la sua opera interiore, l’ha già vista o quantomeno sentita. E comunque c’è un libretto che è intoccabile. Questo fa sì che si debba lavorare come su un mito, occorre approcciarsi alla regia d’opera come su una questione che è già conosciuta e dunque bisogna intrecciarvi altre narrazioni, su cosa siamo diventati oggi e su cosa quell’opera ci può dire adesso. Lo spettacolo nasce su una storia che c’è già, e c’è già anche una sapienza collettiva che chiede continuamente delle conferme. Lavorare in dialogo con questa attenzione alla riconferma, che spesso è conservatrice, è interessante, perché è lì il dialogo, è lì che il regista può intervenire».

E tu come sei intervenuto?
«Cercando appunto di farne una storia che potrebbe essere dei giorni d’oggi, lavorando su molti piani differenti. Ho creato quest’idea della città di cui parla Figaro (“il factotum della città” ndr), togliendo innanzitutto l’opera da un centro e creando invece riverberi continui con microstorie del nostro tempo, per cui la scena stessa è una scenografia che si propone di svelare anche la vita dei protagonisti, laddove ciò non sarebbe previsto dal libretto. Ciò mi ha permesso di creare tanti fili narrativi in più, alla Jacques Tati, che sono quello che mi interessavano, perché quest’opera ride delle nostre nevrosi, dei nostri tic, degli incagli. Rossini in questo è geniale, non a caso lo adorava Carmelo Bene, c’è una grande leggerezza».

Il confronto registico con i cantanti lirici è molto diverso da quello con gli attori teatrali?
«Per me il cantante d’opera è un attore, o almeno dovrebbe essere così. Comunque il grande lavoro che si fa è quello di cercare di insistere sul naturalismo, sulla verità scenica, sulle motivazioni, cercare di sottrarre l’opera dal concerto, tendenza che è invece dominante nel melodramma, dove spesso si fa un semi-concerto con scene. Con i cantanti ho lavorato dunque il più possibile sul naturalismo, poi è ovvio che nella vicenda ci sono un sacco di situazioni di travestimento, iper-teatrali, che si prestano a un tipo di logica più recitativa che naturalistica. Mi sono divertito tantissimo a lavorare a questo Barbiere, è un’opera molto corale. Abbiamo fatto le prove ridendo tutto il tempo, c’è stato un momento che pensavo di non riuscire a vedere una prova senza interruzioni per le risate, stava diventando un problema. Un’atmosfera molto giocosa».

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