Obey e l’uso dello spazio collettivo per fare attivismo tramite l’arte

In mostra ai Magazzini del Sale di Cervia una carrellata di opere del noto street artist americano provenienti da collezioni private. Fino al 4 giugno

Negli anni ’80 un artista italiano – attualmente molto famoso ma al tempo ancora oscuro – mi espose l’idea di utilizzare una pagina intera di un’importante rivista d’arte contemporanea per pubblicizzare un manifesto artistico e promuovere alcune nostre idee sull’arte. Alla mia domanda se aveva idea di quanti soldi sarebbe costata una pagina pubblicitaria del genere mi rispose che non era necessario pagare ma che la cosa importante era il beneficio ottenuto dall’azione. La strategia di Obey – alias Shepard Fairey, nato a Charleston in South Carolina nel 1970 – per uscire dall’anonimato ha la stessa sostanza della provocazione del mio amico ma con un grado di onestà in più: nel 1989, grazie alle sovvenzioni di amici e alle entrate provenienti dal lavoro in un negozio di skates, dalla progettazione di T-shirt e dalla creazione di logo per ditte che producono skateboards, Fairey inizia la sua campagna invasiva di un milione e mezzo si stickers che immortalano la sua icona per 10 anni in decine di città e metropoli statunitensi. Scelta a caso, l’immagine che tratteggia un viso un po’ horror – quello di André the Giant, un famoso wrestler e attore francese affetto da gigantismo – riesce a sfondare l’immaginario collettivo e, grazie alla rete, a diventare virale determinando il successo e la visibilità di Fairey, da quel momento in poi Obey. L’idea vincente è che lo spazio collettivo, riservato generalmente alla pubblicità e alla comunicazione pubblica, può ospitare anche se in modo illegittimo immagini creative – piccole come stickers ma anche gigantesche, realizzate su enormi pareti anonime – in modo da creare nel passante stupore, perplessità o meglio ancora provocare domande su temi dalla forte connotazione politica e sociale.

L’idea di questo guerrilla marketing non è nuova: una delle più importanti artiste americane che ha per prima utilizzato lo spazio pubblico per finti advertisement dal forte carattere politico è stata Jenny Holzer (Gallipolis 1950) con i suoi Truisms – brevi frasi provocatorie come “everyone’s work is equally important” (il lavoro di ciascuno è egualmente importante) – che dagli anni ‘70 prendevano posto sui sacchetti della spesa, negli spazi dedicati alla pubblicità, sulle pareti dei palazzi, illuminavando le notti delle capitali del mondo. La seconda che ha lavorato in modo simile negli stessi anni è Barbara Kruger (Newark 1945) che nei suoi Truisms associa immagini in bianco e nero a scritte brevi, provocatorie, del tipo: “Compro, dunque sono”. Il problema è che nell’arco temporale dei Truisms di Krueger e Holzer e della cosiddetta Arte Urbana, l’era internet non era ancora nata e il potenziale estremo dei loro lavori non poteva che diventare patrimonio degli amanti dell’arte contemporanea e dei migliori musei del mondo.

Nelle varie interviste di Fairey reperibili in rete nessun accenno viene fatto alla Holzer. Neppure alla Kruger che pure deve averlo ispirato per la scelta base dei colori bianco-rossonero di molti suoi lavori che l’americana a sua volta ha ripreso dalla grafica del Bauhaus di influsso costruttivista. Obey preferisce citare Avanguardie come Futurismo e Dadaismo, la Pop Art, il Punk Rock e la cultura della Street Art oltre alla grafica degli skateboards ma è improbabile che la sua formazione artistica non abbia tenuto conto di queste illustri precedenti.

Obey Obama HopeIn mostra a Cervia c’è una discreta carrellata di lavori di Obey – tutti provenienti da collezioni private – e un breve video che narra in modo sintetico l’attività di Obey e i suoi rapporti con un altro Street Artist – Space Invader – famoso anche in zona perchè attivo in una delle sue azioni proprio a Ravenna e a Marina. Quindi l’era di internet ha consegnato Obey alla fama dirigendo i suoi lavori in una campagna sociale e politica in progress principalmente su uguaglianza di genere, antirazzismo, ecologismo e pacifismo. Sono gli stessi temi che vengono impressi su magliette da vendere on line grazie alla creazione del marchio Obey Clothing nel 2001. In mostra non sono visibili questi esordi ma solo una selezione di lavori a partire dal 2008 quando la fama dell’artista raggiunge vertici mondiali grazie ad una serie dedicata alla candidatura di Barack Obama. Disgustato dalla politica precedente di Bush, Obey crea un’immagine di un Obama ispirato, affidabile, prendendo spunto da una memorabile fotografia di John Kennedy e modulandola nei colori della bandiera americana. Sottotitoli nelle differenti versioni del manifesto sono le parole Hope, Progress, Change e Vote. Accusato di plagio e di pubblicità illegale, Obey paga con due anni di libertà vigilata e 2500 dollari di multa ma ottiene alla fine una visibilità mondiale e i ringraziamenti da parte del presidente neoeletto. Poco importa che nel 2015 Obey si dica pubblicamente deluso dalle scelte di Obama a fine mandato: la sua fama di artista è ormai certa nonostante l’imperdonabile ingenuità di essersi sporcato le mani col potere.

Agli stessi anni di questo manifesto appartengono alcune locandine che riproducono in forma stilizzata alcuni scatti memorabili dei bambini in armi in Cambogia, realizzati dal fotoreporter di guerra Al Rockoff. Da queste fotografie degli anni ‘70 Obey ricava immagini ben sintetizzate e allettanti che però sono prive di qualsiasi vitalità del contemporaneo. Lo stesso accade per le immagini di Angela Davis, equiparabile alla riproduzione pop di Che Guevara, ovvero di eroi ed eroine che possono interessare solo ai boomers. Il salto qualitativo e il vero artivismo (attivismo mediante arte) si attivano invece nelle serie “We the Future” che assieme a “We the People”, Obey with Caution e Defend Equality parla non solo ai millennials ma a tutti mediante un linguaggio facilmente comprensibile. Obey celebra e trasforma in icone uomini e donne che difendono i diritti delle minoranze sui temi di razza, religione o genere; sensibilizza sui temi dell’economia green e sulla fragilità dell’ecosistema, avverte del pericolo della politica nazionalista e razzista di Trump.

Le immagini utilizzano sempre pochi colori dai forti contrasti, canalizzati da strisce vettoriali che ricordano la grafica di Rodcenko, da stelle e strisce appartenenti a universi pop e statunitensi, che vengono associati a eleganti inserti decorativi, ripresi dagli studi ottocenteschi di William Morris e dei collaboratori.

In chiusura va ricordato il recente manifesto “Putin’s Ashes” dedicato alla band russa di Punk rock delle Pussy Riots che a causa della loro musica, dei video e performances, hanno pagato con l’esilio, con botte e processi il loro antagonismo alla guerra in Ucraina e alla dittatura di Putin. Obey ha ricomposto e sintetizzato alcuni frame di un video delle Pussy Riots – visibile integralmente in rete – utilizzando la propria visibilità per sostenerle e ampliare la visibilità del loro dissenso.

“OBEY Make Art Not War” – Cervia, Magazzini del Sale (Torre) – fino al 4 giugno 2023 – orari: Lun-Gio 10-20; Ven-Sab 10-23; Dom 10-21- biglietti interi 10 euro; ridotti: 8-4 euro.

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