«Il mentalismo è la forma più elegante di illusionismo»

Francesco Tesei con il suo ultimo spettacolo in scena a Bagnacavallo e Faenza

Francesco Tesei 3«Il mentalismo è la forma più elegante di illusionismo, non si sofferma sui trucchi, ma mette in luce quanto siamo prevedibili e manipolabili come esseri umani». Francesco Tesei, uno dei mentalisti più noti della scena italiana, torna in Romagna, sua terra d’origine, per concludere la tournée del suo ultimo spettacolo: Telepathy, un viaggio iniziato con la riapertura dei teatri nel post pandemia. Due le date in provincia, venerdì 1° marzo alle 21 al teatro Goldoni di Bagnacavallo e sabato 2 marzo alla stessa ora al Masini di Faenza. Si tratta del quarto spettacolo dell’artista, noto anche per lo show su Sky Il Mentalista e l’apparizione in diversi programmi televisivi.

Quando ha scoperto la passione per il mentalismo e che formazione ha seguito per lavorare in questo ambito?
«Sono un mentalista da oltre vent’anni. È una passione che si è trasformata affondando le radici nel mio vecchio lavoro di illusionista. Dopo anni di attività a livelli professionali iniziava a starmi stretto il concetto di “trucco”. Mi sono innamorato del senso di meraviglia che lascia la magia già dall’infanzia, ma cercavo qualcosa che andasse oltre al “coniglio che esce dal cilindro”. Ho trovato la quadra nel mentalismo, una disciplina che porta in scena temi comuni a tutti, riflettendo sui modi che abbiamo di pensare e ragionare sia singolarmente che come gruppo. Per questo non ho seguito una formazione specifica. Non conosco un mentalista che non sia stato prima di tutto un illusionista».

Quanto c’è quindi di magia e quanto di psicologia e comunicazione nelle tecniche di mentalismo?
«Non posso dare una risposta certa. È un po’ come se guardando un quadro chiedessimo al pittore quanta percentuale di colore ha usato per ottenere una determinata tinta. Lui risponderebbe “ho usato quello che mi serviva”, e lo stesso vale per me. Fare il mentalista non significa fare lo psicologo, ma portare sul palco un’esperienza. Lavorare in teatro richiede anche competenze da attore, da regista e musicista, oltre all’attitudine all’illusionismo e alla ricerca in ambito psicologico e comunicativo».

Telepathy è il quarto spettacolo portato in scena a teatro, di cosa parla e come si svolge?
«Bisogna iniziare dal nome: quello della telepatia può sembrare un concetto scontato per un mentalista, ma l’etimologia del termine, che deriva da tele, distanza, e pathos, passione, intesa anche come sofferenza, racchiude perfettamente la sensazione vissuta durante il lockdown. Lo spettacolo però non parla del Covid, quanto piuttosto di come mi sono sentito io in un periodo in cui le maschere sul viso impedivano di vedere espressioni e sorrisi. È uno show introspettivo, che si rifà al tema della follia ispirandosi anche all’Amleto di Shakespeare. Porto sul palco un mentalista diverso da quello delle esibizioni precedenti: se prima vestivo i panni del “grande burattinaio”, questa volta metto in luce una frattura interiore, la perdita del controllo sugli eventi. Nella prima parte dello spettacolo insceno la follia metodica dell’Amleto: un mentalista senza qualche rotella ossessionato da esperimenti solitari e effimeri, come risolvere il cubo di Rubik ad occhi chiusi, indovinare l’esatto numero di bottoni in un barattolo solo ascoltandone il suono o imparare a memoria qualche migliaio di cifre del Pi Greco. Come un galeotto che si tiene impegnato allenando la mente invece del fisico. Il crescendo dello spettacolo rende la follia contagiosa e condivisa, gli esperimenti iniziano a coinvolgere attivamente il pubblico, fino a portare gli spettatori a chiedersi chi sia davvero il matto tra me e loro».

Come sono cambiati gli spettacoli negli anni?
«Il primo spettacolo, Mind Juggler, voleva essere una sorta di introduzione al pubblico alla figura del mentalista: proponevo una serie di giochi ed esperimenti spaziando da un argomento all’altro per far conoscere il mentalismo nelle sue varie sfaccettature. Durante lo show, lasciavo qualche indizio e spiegazione sulle tecniche usate: una vera e propria presentazione della pratica. Dal secondo spettacolo, The Game, ho scelto di dare un tema alle rappresentazioni: in quel caso si parlava della fortuna. Quella che chiamiamo la “dea bendata” si muove veramente al di fuori del nostro controllo? Personalmente, credo che cercando di capire la fortuna si possa capire molto sugli umani, su certi meccanismi virtuosi o dannosi che mettiamo in atto inconsapevolmente. Lo spettacolo si basava su una serie di “strane coincidenze” arrivando a un finale che giocava con il tipico sogno di vincere alla lotteria. Human invece metteva al centro il contatto umano, fondamentale per svolgere le pratiche di mentalismo, ponendolo in contrapposizione al contatto virtuale dei social network, tra amicizie surrogate e illusorie, ansie e senso di inadeguatezza».

Scrive da solo le sue sceneggiature?
«Principalmente sì, confrontandomi con il mio assistente Deniel Monti. Ci siamo conosciuti quando ero ancora illusionista e mi colpirono la sua discrezione e scaltrezza. Inoltre, la sua diffidenza nei confronti della magia mi garantisce una visione critica e distaccata su ciò che voglio portare in scena. Ad oggi, oltre ad aiutarmi nella stesura degli spettacoli e del libro edito per Rizzoli, è anche il mio assistente personale. Telepathy però è stato scritto in solitaria: è troppo personale ed è stato terapeutico per me trasformare il mio dolore in spettacolo».

Com’è il rapporto con il pubblico negli spettacoli in live?
«Uno scambio stretto e pervaso dal senso di meraviglia tipico anche dell’illusionismo. A differenza di quest’ultimo però il mentalismo non si limita a una serie di “trucchi” pensati per l’intrattenimento, ma vuole lasciare spunti su cui riflettere. C’è chi torna a vedere lo stesso spettacolo più e più volte, perché ad ogni visione porta a casa uno spunto di riflessione: di cosa stiamo parlando davvero? Ogni esperimento contiene una scintilla che esemplifica un concetto più ampio, rivolto alla psicologia umana, alla manipolazione degli eventi che sembrano casuali e soprattutto al quanto comunichiamo, anche involontariamente, come esseri umani».

Le è mai capitato di sbagliare durante un’esibizione?
«Sì, una volta anche in una situazione abbastanza pericolosa, ma è andato tutto bene. In quel caso si rinnova il “senso di meraviglia”, sia da parte mia che del pubblico, ma purtroppo non quello che piace a me. Certo, i miei spettacoli sono costellati anche da “finti errori”, in modo da creare nel pubblico la sensazione che qualcosa stia andando storto e accrescere la sorpresa finale».

C’è qualche tecnica di base che le piacerebbe raccontarci?
«No, purtroppo conosco solo tecniche sofisticate. Scherzi a parte, un mio collega, maestro di mentalismo, aveva messo a disposizione un dvd diviso in tre parti: “performance”, “spiegazioni” e “spiegazioni rapide”. Selezionando l’ultima voce del menù appariva un video dove lui, arrabbiato, ti chiedeva cosa stessi facendo: non esistono approcci rapidi a questa disciplina».

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