Salgado al Mar, la fotografia di un mondo senza salvezza

Le immagini del brasiliano (a Ravenna fino al 2 giugno), più significative di tanti giri di parole

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Esodo è il titolo del secondo libro della Bibbia in cui si narra l’esilio e la schiavitù degli Ebrei in Egitto, la loro liberazione grazie al patriarca Mosè e il soggiorno nel deserto del Sinai. Il processo di oppressione e attivazione di libertà descrive un percorso di salvezza nel contesto di una visione teleologica che mantiene sull’orizzonte la volontà divina. Ma le immagini di Exodus realizzate fra il 1993 e il 1999 dal brasiliano Sebastião Salgado (1944) – fotografo e fotoreporter fra i più importanti del globo – restituiscono la durezza di un mondo senza salvezza e sempre uguale nel male.

A distanza di 25 anni dal termine di questa impresa – che documenta nel corso di sei anni la storia delle migrazioni umane attraverso 35 paesi – i temi della povertà, della violenza e della speranza sono oggi ancora gli stessi, anche se quei mondi e quelle vite immortalati non ci sono più. I conflitti si sono spostati, alcuni paesi non esistono più, nuovi muri divisori sono stati innalzati: le immagini di Salgado descrivono realtà superate ma le tragedie di milioni di esseri umani sono sempre le medesime. Il tempo passa, i luoghi sono altri, ma nulla di nuovo sta sotto il sole.

La mostra di Salgado – aperta al Mar a distanza di sei anni da un’altra del fotografo dal titolo Genesi, realizzata negli spazi di San Giacomo a Forlì – viene promossa da due assessorati, alla Cultura e all’Immigrazione, del Comune di Ravenna, collegandosi ad alcuni contesti ed eventi particolari. L’inaugurazione della mostra è caduta appositamente il 21 marzo, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale proclamata dall’Onu. Se quel giorno è stato scelto per ricordare la strage di una settantina di dimostranti sudafricani di colore compiuta nel 1960, la celebrazione rammenta anche che l’umanità è ancora molto lontana dall’accettare i propri simili: non solo per un apartheid che in Sudafrica è ufficialmente finito ma ufficiosamente continua nei rivoli di diseguaglianze conclamate fra bianchi e neri o enclavi di pura razza afrikaner, ma per l’esistenza di leggi che escludono altri gruppi sociali – come ad esempio donne, bambine, intere etnie – in numerose parti del mondo.

La mostra – da considerarsi parte integrante dell’annuale Festival delle Culture – trova motivo anche nel costituirsi come supporto teorico-visivo alla pratica politica di accoglienza che Ravenna ha scelto da tempo di attivare: a oggi, maggio 2024, sono undici gli sbarchi di migranti giunti al porto per un totale di più di 1.100 persone salvate. Per comprendere le ragioni di questa scelta umanitaria – per quanto costretta, giusta e necessaria – più che tanti giri di parole possono dire meglio le immagini di Salgado.

Articolata in quattro sezioni e conclusa con una serie di ritratti di bambini, la mostra – a cura di Lélia Wanick Salgado, collaboratrice e moglie del fotografo – si presta a una strategia educativa: Amnesty International Italia attiverà laboratori didattici con l’obiettivo di dare le conoscenze di base sul tema dei diritti umani, in modo da poter leggere in modo autonomo e critico quanto accade anche in altri contesti.

Altrettanto importante è la contestualizzazione delle immagini di Salgado che parlano di una storia contemporanea in forte e drammatica evoluzione. Nella prima sezione – Migranti e profughi, l’istinto di sopravvivenza – alcune foto raccontano dei tentativi di migrazione fra Messico e Stati Uniti, oggi superati – ma non bloccati – dalla costruzione del così detto muro di Tijuana, la cui realizzazione, iniziata nel 1993, non si è ancora fermata. Inarrestabile anche il numero dei morti che tentano comunque di superare il confine nei punti scoperti dal muro, interrotto solo nelle porzioni di deserto sul confine.

Un’immagine spaventosa di bambini su un camion, stivati come polli in gabbie, narra del campo profughi di Whitehead a Hong Kong, aperto per raccogliere profughi in fuga dal Vietnam. Ancora la storia sopravanza le immagini: il campo è stato chiuso nel 1997 grazie a una risoluzione dell’Onu dopo varie rivolte e un uso abnorme di violenza da parte della polizia, ma quello che rimane è la considerazione dell’esistenza oggi di migliaia di altri centri di detenzione – così come in alcuni luoghi vengono chiamati con una sincerità brutale – sempre in funzione e con uguali condizioni di disumanità.

Dopo gli scatti della prima sezione – che narrano di guerre terminate, come quella della ex Jugoslavia o del Kosovo, ma di violenze perenni, come ai danni della popolazione curda – si aprono le sezioni con focus su Africa, America latina e Asia. I racconti di fatiche millenarie come la ricerca di acqua (Sudan 1995) o la coltivazione della terra dopo il ritorno a casa da esili coatti (Mozambico 1994) si alternano a immagini drammatiche di profughi ruandesi di origine hutu in fuga dai ribelli dello Zaire (1997) o i cadaveri di centinaia di tutsi abbandonati per un anno in un villaggio in Ruanda (1994). Per molti si tratta di nomi irriconoscibili, di etnie strane, sconosciute, di luoghi esotici che rimandano genericamente solo a villaggi vacanze, sole e palme. Ma il bianco e nero inflessibile di Salgado non lascia scampo a descrivere un inferno sempre attivo e affamato di innocenti.

Sebastião Salgado Exodus – Umanità in cammino
Mar Ravenna – fino a 2 giugno;
orari: ma-sa 9-18; do e festivi 10-19;
ingresso a pagamento, info: mar.ra.it.

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