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    Categoria: economia

L’industria e i valori d’impresa Poi Kahneman e Jim Morrison

Il libro del Nobel per l’economia e i Doors tra le passioni di Ottolenghi
Il presidente di Confindustria Romagna e il rapporto con la cultura

«Non abbiamo mai combattuto per il risultato perfetto ma per qualcosa un po’ meglio di quello che c’era prima». La filosofia di Confindustria è riassunta così da Guido Ottolenghi, manager e imprenditore alla guida dell’associazione di categoria a Ravenna e in Romagna. Pubblichiamo qui sul sito l’intervista uscita sul numero di giugno di R&D Cult, il mensile freepress Romagna & Dintorni Cultura dedicato alla cultura in Romagna in uscita ogni ultimo giovedì del mese.

Si sta svolgendo a Ravenna la prima edizione del “Festival dell’industria e dei valori d’impresa” promosso da Confindustria (scaricabile dal link in fondo alla pagina il programma completo in pdf). Come nasce l’idea e quali sono i valori in cui si riconosce l’impresa associata?
«Nel 2015 festeggiamo i 70 anni di Confindustria Ravenna. Dopo la guerra, in un momento difficile, un piccolo gruppo di imprenditori aveva già intuito l’importanza di un punto di riferimento dove incontrarsi e discutere su come affrontare le sfide quotidiane. Se vogliamo avevano già capito l’importanza della cultura d’impresa e oggi vogliamo onorare quel punto di partenza a distanza di settant’anni. In questi anni abbiamo dedicato molte energie, soprattutto al nostro interno, per far capire quanto sia importante la cultura perché non è così ovvio quanto influenza la nostra capacità di vivere bene. Fare cultura per l’impresa è anche conveniente, ma non significa sedersi in un salotto e parlare di cose alte ma discutere e ragionare per una analisi e poi le azioni per migliorare il mondo in cui viviamo. E questo è un aspetto tipico della cultura di impresa, più abituata di altri processi culturali a non incardinarsi su una ideologia pregressa ma a interessarsi alla ricerca di una soluzione».

Qual è il clima di questo festival?
«Diciamo che sarà un assaggio di quello che potrebbe essere il museo dell’impresa e dell’ingegno, un’idea che abbiamo lanciato l’anno scorso e su cui stiamo ancora lavorando per raccontare la storia dell’impresa sul nostro territorio e permettere di conoscere come le imprese influiscono sul benessere del nostro territorio o sulla quotidianità dei cittadini. I nostri associati sono pronti a investire 1,5 milioni di euro per l’avviamento e la gestione dei primi tre anni e stiamo lavorando con le istituzioni per individuare un luogo che possa accogliere l’iniziativa. In attesa di individuare lo spazio ci siamo detti che il festival potrà essere un prova. Hanno già dato la loro adesione 50 imprese, ci sarà una mostra fotografica e momenti di dibattito e riflessione ma soprattutto vogliamo che le imprese si aprano verso l’esterno e accolgano la curiosità di chiunque».

Che rapporto c’è tra gli imprenditori e i soggetti che fanno cultura nel senso più classico?
«In Romagna c’è una passione largamente condivisa per le proprie radici, non conosco altri territori con queste slancio per la divulgazione riferita al locale. E il rapporto con l’industria è vivo. Non solo c’è il sostegno in termini di tempo e risorse che il singolo imprenditore dedica nei contesti più vicini alle sue passioni personali, ma mi sento di dire che non siamo da meno alle associazioni industriali più grandi. Con il premio Guidarello e il sostegno al Ravenna Festival dimostriamo la volontà di non abbandonare il dibattito culturale e alimentare le riflessioni».

Eppure ogni tanto qualcuno vi tira per la giacchetta dicendo che potreste fare di più per la cultura…
«Le critiche arrivano sempre ma non credo si possa dire che facciamo poco. Non solo in termini di fondi, che purtroppo sono oggettivamente più scarsi di una volta, ma penso si debba dare atto alla nostra associazione del contributo portato in termini di idee, riflessioni, iniziative culturali. Se guardiamo i dibattiti aperti alla città sotto il cappello Ravenna 2030 si trovano ragionamenti su economia, giustizia, legalità, finanza. Abbiamo permesso di dare un arricchimento di pensiero. Sosteniamo anche l’Università. A Forlì si è riusciti a fare di più per l’Ateneo ma là si sono alleate altre risorse».

Ma allora Confindustria ha ancora un peso nel dibattito pubblico oppure ha perso l’importanza di un tempo?
«Ha ancora influenza? Mi sembra di sì. C’è un potere soft e un potere hard. Il secondo Confindustria non lo esercita più da tempo e quando ancora lo faceva negava di farlo. Il potere soft invece è quello di avere idee, contributi, identificare soluzioni e mi sembra che questo non sia venuto a mancare. Confindustria ha sempre dimostrato capacità di concretezza, non abbiamo mai combattuto per il risultato perfetto ma per qualcosa un po’ meglio di quello che c’era prima. La capacità che oggi viene chiamata riformismo è una nostra qualità, un valore per gli associati e per la società. Ma certo che anche gli imprenditori a volte perdono concretezza e fanno prevalere l’orgoglio».

In uno degli ultimi numeri di maggio L’Espresso si chiedeva a cosa serva ancora Confindustria…
«Credo che serva agli imprenditori per avere un posto dove confrontarsi, mettere insieme più cervelli per risolvere problemi. Non è vero che Confindustria è dominata dalle grandi aziende, anzi permette alle piccole di essere ascoltate meglio. E in alcuni casi aggregarsi aiuta a ottimizzare certi costi. Però è vero che è cambiata l’Italia e ovviamente dobbiamo adeguarci al cambiamento del tessuto industriale. Ci sono istanze di cambiamento dalle aziende e tentativi dell’associazione di adeguarsi, ma serve tempo».

Fra un anno il comune capoluogo di Ravenna sceglierà il nuovo sindaco. Come si augura che sia il profilo dell’amministratore futuro?
«È una persona che si appressa a svolgere un compito obiettivamente ingrato. Dovrà ascoltare tutti poi generare una visione per il futuro, ma deve avere anche il senso dei propri limiti lasciando spazio alla libera iniziativa del cittadino, in tutti i sensi, non solo imprenditoriale. Mi auguro sia una persona capace di usare un linguaggio chiaro, niente populismi ma in grado di parlare alla pancia della gente per spiegare quando necessario che sta andando verso una direzione che si ritiene sbagliata. Spero sia finito il tempo del linguaggio criptico e manipolativo. Mi auguro sia una persona concreta e di buon senso».

Stiamo parlando di cultura ma è inevitabile una parentesi più economica sul mondo della portualità che lei conosce bene. Tra indagini, progetti sospesi e piani di riforme, cosa succederà allo scalo di Ravenna?
«Prima di tutto bisogna decidere se è davvero importante per la città, perché tutti dicono che è così poi agiscono al contrario. E allora bisogna fare chiarezza. Smettendo di spiegare tutto con complotti. Per quanto riguarda la bozza di riforma Delrio (ipotesi di accorpamento delle Autorità portuali di Ancona, Ravenna, Venezia e Trieste in un unico distretto con sede a Venezia, ndr) credo che parta da una premessa condivisibile: tutti i porti italiani messi insieme fanno meno di un sistema portuale olandese o tedesco. Questo è vero e impone delle riflessioni, almeno per dirci che non tutto è perfetto ma non è nemmeno detto che sia perfetta ogni proposta dal ministero. Dobbiamo capire perché nonostante una posizione logistica fortunata, l’Italia non riesca a sfruttare al massimo i suoi potenziali portuali. Però mi sembra di vedere la stessa reazione già vista in altri settori davanti a ogni riforma proposta dal Governo. Crediamo che dialogare serva ma il dialogo non sia strutmento di ricatto e immobilismo altrimenti si spinge il Governo ad agire in isolamento. Il Governo ci sta insegnando che la tecnica consolidata della lamentela per paralizzare tutto non funziona più. Certo che la riforma dei porti tocca un problema che esiste. Non conosco ancora la proposta Delrio nel dettaglio ma la massa critica è ormai una necessità per essere competitivi».

Poi c’è il cosiddetto Progettone per l’approfondimento dei fondali…
«Chiamiamolo progetto Hub Portuale, perché se questo è un Progettone allora come dovrebbero chiamare quelli dei porti in cui hanno investito centinaia di milioni? Noi abbiamo espresso le nostre perplessità sugli espropri e sulle modifiche al progetto già all’inizio dell’anno. Abbiamo chiesto alternative a quella linea e ci hanno detto che non c’erano alternative salvo ora sentirci dire che stanno cercando alternative. Magari sarebbe servito un tavolo tecnico per ragionare. Le debolezze denunciate da noi erano tutte lì visibili e quel progetto non si realizzerà, magari con un po’ di ingegno si potrà trovare l’alternativa. Ma constatiamo un fallimento della capacità di analisi».

Torniamo alla cultura. Libri, film, teatro e musica: qualche consiglio dai suoi gusti personali?
«Un libro che non può mancare sul comodino dell’imprenditore è “Pensieri lenti e veloci” di Daniel Kahneman ma è un po’ un mattone. Un film invece mi sento di citare un lavoro piuttosto banale ma con una scena splendida: in “Civil Action” i protagonisti si rendono conto di avere perso l’occasione per cambiare la loro vita e questo è qualcosa che accade spesso nella vita quotidiana. A teatro a non vado da molto tempo. Per la musica faccio solo tre nomi: Mozart, Rossini e i Doors». Andrea Alberizia