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    Categoria: società

«L’Ausl? Non ci è stata di alcun aiuto»

Piatti rotti, fughe notturne, consumo di hashish: la testimonianza di una madre alle prese con una figlia ribelle e problematica

Fughe da casa, piatti rotti, urla, scenate, bugie, nottate brave. Normali comportamenti da attribuire all’adolescenza? Ragazzate, ribellioni fisiologiche nel periodo di passaggio tra l’infanzia e l’età adulta? I genitori non ne sono del tutto convinti e decidono di rivolersi all’Ausl per ricevere aiuto con la loro figlia sedicenne, prima che sia troppo tardi. Il loro sospetto è che Giovanna (nome di fantasia) possa soffrire di un disturbo della personalità che le impedisce di trovare motivi di interesse, la rende apatica, fa precipitare il suo andamento scolastico. «Fino ai tredici anni – ci racconta la madre – Giovanna è stata una bambina che non ci ha dato particolari problemi, sì era testarda e un po’ ribelle, tutte caratteristiche che potevano diventare punti di forza se gestiti e che invece con gli anni sono diventati problemi».

La famiglia viene dunque indirizzata verso il servizio di assistenza psicologica che si chiama “Esordi” (vedi dati nel paragrafo in fondo all’articolo) specificamente dedicato alla prevenzione e cura all’insorgere dei primi sintomi psicotici nei ragazzi per evitare che sfocino in patologie. Esordi è un programma di intervento centrato sul destinatario trasversale a tutti e tre i distretti (Ravenna, Lugo, Faenza) che mette insieme un gruppo di lavoro che comprende professionisti del Dipartimento di salute mentale (neuropsichiatri, psichiatri, educatori, infermieri, assistenti sociali), dei servizi sociali e dei consultori. Complessivamente ci lavorano circa 25 persone. Sono stati 230 i pazienti che si sono rivolti al programma Esordi del servizio Ausl nel 2014, in aumento del 29 percento rispetto al 2013. Di questi oltre 140 sopra i 24 anni e appena 4 sotto i 15. Gli esiti forniti dall’Ausl parlano di un 58 percento di remissione o miglioramento piscopatologico.

Il caso di Giovanna viene affidato a una equipe formata da psichiatra del Sert (in quanto la ragazza faceva anche uso di cannabis), psicologa ed educatrice. «Psichiatra e psicologa avranno visto mia figlia non più di due o tre volte in un anno, mentre hanno subito puntato il dito contro la famiglia. Noi non ci siamo mai sottratti, siamo andati più volte, ma l’evolvere della situazione in casa mi convinceva ogni giorno di più che quanto fatto fosse inutile, se non dannoso. Invece di sottoporre mia figlia a test che potessero aiutare a formulare una diagnosi, hanno detto che il problema erano la famiglia e la scuola. Con il risultato che mia figlia ha lasciato il liceo per un corso di formazione professionale che non le interessa e che frequenta saltuariamente. Nel giro di un anno è anche rimasta incinta, ha dovuto abortire, è più volte sparita di casa, si è fidanzata con un pregiudicato». Insomma, un disastro.

«L’unica persona che ha dato continuità alla terapia e che davvero è riuscita a stabilire una relazione con mia figlia è stata l’educatrice, anche perché una delle psicologhe aveva un contratto a termine e a fine anno è stata lasciata a casa e non sostituita. Se si guarda nelle cartelle mediche di questi diciotto mesi si vede che tra loro si sono riuniti, hanno magari commentato il mio stato di angoscia e ansia, che per la verità mi sembra piuttosto normale, senza mai mettere nero su bianco modalità di intervento e operative». È così che la famiglia decide di chiedere consulenze all’esterno, arrivando fino a Fano dove Maria Elena Ridolfi, che lavora sul disturbo borderline all’interno dell’azienda sanitaria locale, formula un’ipotesi di diagnosi che qui di fatto non arriverà mai. «Da poche domande ha capito che mia figlia ha un problema di personalità, mi ha spiegato che lì ci sono gruppi di lavoro ad hoc, ma che ovviamente sono aperti a chi è del territorio».

E così la famiglia decide di rivolgersi direttamente anche al primario del Dipartimento di Salute Mentale la dottoressa Paola Carozza che prende in carico la situazione, incontra più volte la paziente insieme alla famiglia e coordina direttamente una squadra di persone (in parte le stesse che già avevano lavorato con la paziente) che finalmente sottopongono la ragazza a una serie di test psicologici. «Mi chiedo perché tutto questo non sia stato fatto prima – dice la madre – personalmente ero certa che ormai fosse tardi. E così è stato. Come previsto da mesi da me, mia figlia ora che ha compiuto i 18 anni, e si sente in qualche modo sollevata “dall’obbligo” di terapia, manca alla maggior parte degli appuntamenti che le danno, e senza nemmeno avvisare. La sua vita continua a essere inconcludente, incapace come è di seguire un minimo progetto per il suo futuro, e molto spesso si mette in situazioni a rischio. E l’unica diagnosi certa a cui sono arrivati è una dipendenza da cannabis…». Il suo giudizio è dunque durissimo: «Come può considerarsi competente un’équipe incapace in un anno e mezzo di instaurare un minimo rapporto terapeutico con una ragazzina? Per noi si è trattato di un servizio non solo totalmente inutile, ma anche dannoso perché ha creato in noi aspettative che non sono state soddisfatte. Il tutto a carico dei contribuenti».