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«A Bergamo ho perso due familiari, è una guerra. Qui forse siamo ancora in tempo»

La testimonianza di Diego Galizzi, direttore del Museo delle Cappuccine di Bagnacavallo. «Nel mio Paese d’origine l’epidemia è fuori controllo, mio cognato è in una bara che verrà portata via sui mezzi militari. In altre parti d’Italia, come a Ravenna, possono fare la differenza i comportamenti individuali»

Diego Galizzi

«Forse l’immagine dei mezzi militari che portano via le bare è stato l’unico momento in cui chi non è là ha potuto davvero rendersi conto della dimensione della tragedia». A parlare è Diego Galizzi, che «là» ci è nato e cresciuto, prima di trasferirsi a Ravenna, dove vive da più di vent’anni ed è direttore del Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo. «Là» è il Bergamasco, la Val Brembana e in particolare San Giovanni Bianco, paese di 5mila abitanti dove «una famiglia su due è contagiata», ci racconta al telefono Galizzi, colpito dalla tragedia coronavirus a distanza, ma comprensibilmente scosso come fosse stato presente personalmente. Nel giro di un paio di settimane ha perso la zia e il cognato. «E ora mia sorella piange da sola, in casa, senza nessuno che possa avvicinarla e abbracciarla, nella lacerante incertezza se a sua volta sia affetta o meno dal virus, visto che non fanno i tamponi».

Galizzi racconta di una realtà parallela a quella ravennate. «Stiamo vedendo due film diversi. Qui ci si preoccupa del disagio dell’isolamento, dell’attività motoria, delle preposizioni “per” e “con”, si tende a mettere in dubbio il numero dei morti. Nel Bergamasco, invece, tutti sanno che quel numero è perfino sottostimato, come scrivono anche i sindaci nei loro appelli al Governo. Nel mio paese, per esempio, nello stesso periodo l’anno scorso erano morte 3 persone, quest’anno 33, magari in casa, qualcuno forse con “patologie pregresse”, come si tende a dire in questi giorni in quella che sta diventando una grande, insopportabile mistificazione».

I mezzi militari che trasportano le salme a Bergamo

«Mio cognato aveva 70 anni – racconta ancora Galizzi –, era uno sportivo, in salute, faceva una vita normale. Mia zia aveva più di 80 anni e l’unica “patologia pregressa”, se la si vuole trovare, era l’anzianità». Un’ottuagenaria che viveva da sola, in una casa in pietra di montagna, e a fine febbraio ha iniziato a sentirsi male. «Mia sorella e mio cognato sono andati a controllare, l’hanno assistita, poi quando l’hanno portata in ospedale non capivo perché l’avessero ricoverata al reparto di Malattie Infettive; mi ero anche arrabbiato, mi sembrava impossibile che questo male avesse potuto raggiungerla. Ma al telefono i miei famigliari mi hanno aperto gli occhi: là stava succedendo l’inimmaginabile, quel virus era ovunque, in ospedale arrivavano a grappoli e non sapevano più dove metterli. Erano saltati gli schemi». Così a Galizzi facevano ancora più impressione i tanti ravennati usciti nei primi giorni di marzo per andare al mare, o al ristorante, o al parco. «Là è esploso tutto troppo presto e in poco tempo, come uno tsunami, che non sono riusciti a fronteggiare. I contagiati saranno venti volte tanto i numeri ufficiali, non fanno il tampone a nessuno, se non quando ormai sei in condizioni davvero critiche. Da due settimane che è morta mia zia, ancora non l’hanno fatto al resto della mia famiglia, che aveva avuto contatti con lei, neppure a chi nel frattempo aveva avuto la febbre. Penso comunque che nel Bergamasco sia ormai troppo tardi, l’epidemia è fuori controllo. Qui invece probabilmente siamo ancora in tempo ad adottare tutte le misure possibili per cercare di monitorare il fenomeno, a cercare di ricostruire l’indagine epidemiologica dei vari contagiati. Ma soprattutto ad adottare comportamenti individuali adeguati».

«Là – continua – ha preso velocemente la dimensione di una guerra, in cui se riesci a far ricoverare in ospedale un tuo caro con problemi respiratori sei fortunato, ma poi non hai più sue notizie, fino a che non ti arriva la chiamata che non vorresti mai ricevere, fino a che non te lo restituiscono già sigillato in una cassa e ti consegnano un sacchetto coi vestiti e il cellulare. Io ho perso mio cognato, una persona cara, tre giorni fa, ora è insieme ad altre bare in una camera mortuaria, a cui non ci si può avvicinare, dopodomani forse sarà portato a Bergamo dove sarà caricato sull’ennesima triste colonna di mezzi militari che lo porteranno da qualche altra parte, non sappiamo dove, da cui tornerà fra qualche giorno in una scatoletta con sopra un nome inciso. Non è forse una guerra questa?». Una guerra, continua Galizzi, combattuta «da un esercito di medici e infermieri molti dei quali si infettano, come mi racconta l’altra mia sorella, che lavora all’edicola davanti all’ospedale. Eppure continuano a lavorare come dei veri eroi, come in effetti sono, senza retorica, altrimenti l’ospedale chiuderebbe. Ne conosco molti personalmente. Vedo molto poco di eroico invece in un sistema che li manda a lavorare in quello stato, spesso senza protezioni adeguate, che costringe gli operatori a staccare un respiratore da un tuo caro per passarlo a un altro magari più giovane o con più possibilità di uscirne, e a iniziare a trattarlo con la morfina per “accompagnarlo”, perché non ci sono abbastanza respiratori. Questo è successo. Ma il tempo per questi discorsi, sono certo, arriverà dopo che sarà finito tutto questo».

È una tragedia insopportabilmente «fredda», sottolinea infine il direttore del museo di Bagnacavallo, dove «l’individualità degli affetti si perde in un dramma collettivo e le persone smettono di essere persone per apparire, agli occhi dei più, solo dei numeri».