Vanoli: «La storia è sempre identitaria, ma dobbiamo allargare lo sguardo al mondo»

Il noto storico e divulgatore ospite a Ravenna al museo Classis per presenteare il suo volume “Non mi ricordo le date!” pubblicato da Treccani per la nuova collana “Tessere”. «In questa società parcellizzata siamo alla ricerca di radici». Sul mestiere degli storici: «Dubitare di qualsiasi cronaca ufficiale, applicare il metodo critico e porsi il dubbio»

Alessandro Vanoli 8

Uno storico che si interroga sul senso di fare e insegnare storia oggi e, insieme, ci ricorda quale sia il filo di date, quella linea del tempo condivisa che ci appartiene e in qualche modo ci rappresenta. Alessandro Vanoli, bolognese, classe 1969, ha lasciato l’insegnamento universitario per diventare autore e divulgatore con all’attivo numerosi libri per Il Mulino e Laterza, podcast, collaborazioni Rai, monologhi teatrali, tutte attività all’insegna dell’accuratezza da un lato e della fascinazione del racconto dall’altro. Ora ha da poco dato alle stampe Non mi ricordo le date! La linea del tempo e il senso della storia, tra i primi titoli della nuova collana di Treccani diretta da Paolo di Paolo dal titolo “Tessere”. Ne parlerà a Classis sabato 7 ottobre alle 11, primo di una serie di incontri organizzati da RavennAntica nel museo. 

Vanoli, come possiamo definire questo libro così sui generis e che sembra quasi contenere due anime, una più diciamo di contenuto – le date che ci ricordiamo o dimentichiamo – e l’altra invece di riflessione sul senso della storia oggi?

«Non so dare una definizione, ma è vero che tutto nasce da due elementi diversi ma convergenti: da un lato una serie di riflessioni che mi appartengono da tanti anni, in cui ho messo in dubbio il mio mestiere di storico per capire cosa sia ormai diventato. In seconda battuta, la proposta di un caro amico e strepitoso intellettuale quale Paolo Di Paolo che ha immaginato questa nuova collana Treccani come una serie di libri il meno pedanti possibile che cercano di riflettere su cosa c’è rimasto dei nostri saperi di base, quelli acquisiti attraverso la scuola, ma non solo, e che si sono quindi sedimentati. Questa era la chiave attraverso cui potevo ragionare sulle trasformazioni che il senso della storia ha attraversato negli ultimi decenni».

Per chi lo ha scritto quindi? Persone che hanno da tempo finito gli studi? Docenti? E i ragazzi delle scuole che ancora non hanno sedimentato alcuna scansione del passato? 

«Dichiaratamente il primo pubblico di riferimento è stato quello dei boomer come me, per coloro che ormai hanno attraversato gran parte del loro percorso formativo. Poi ci sono gli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado: vorrei che il libro diventasse l’occasione di una  riflessione tra colleghi visto che è esattamente la categoria a cui ancora sento di appartenere per  deontologia e storia personale. I ragazzi invece sono la speranza, proprio perché non hanno la nostra sedimentazione e hanno altre finestre. Il mio auspicio è quello di usare strumentalmente la mia memoria per ragionare sulla memoria che si sta creando in loro». 

Nel suo libro emerge quanto “l’invenzione della storia” come materia scolastica del Regno d’Italia sia servita innanzitutto a costruire un’identità nazionale. Ne abbiamo ancora bisogno? In un mondo globalizzato non è una visione troppo ristretta per poter capire ciò che ci circonda oggi?

«Da un certo punto di vista è vero che c’è un approccio fortemente italocentrico di cui non ci siamo mai liberati, che soffre di diverse stiracchiature, ma che rappresenta anche una serie di punti fermi che ci fanno stare comodi. Personalmente, sono convinto che sia necessario avere una percezione del mondo complessa a sufficienza da poter abbracciare tutto. Oggigiorno è privo di senso non sapere nulla della Cina, della Russia, dei paesi musulmani. Quindi la risposta è che certo, sarebbe necessario ampliare lo sguardo. Ma allo stesso tempo, so anche che per funzionare la storia ha bisogno di parlare di qualcosa che sentiamo nostro, ha  una natura identitaria».

E come si coniugano questi due aspetti?

«La sfida è capire e far capire che la storia e la geografia globali ci appartengono. Ogni tassello fa parte della nostra umanità. A scuola sappiamo come i programmi di storia siano stati devastati anche prima della riforma Moratti e gli insegnanti mi parlano della difficoltà di poter parlare di Cina quando già le ore in classe non bastano per studiare l’Europa. Non è quindi solo un problema di competenze, ma anche pratico. Si dovrebbero rivedere i programmi scolastici, ma questo non è il mio mestiere».

Gli studenti oggi chiedono spesso perché debbano ancora imparare i sumeri… 

«E hanno ragione! È una scelta figlia di quell’italocentrismo che vuole farci vedere da dove arriva la nostra classicità e quale sia la nostra eredità. Siamo ancora lì. Ma almeno sarebbe bene rendersi conto che anche in tutto questo c’è una sua artificialità».  

Quanto c’è di vero nella frase per cui “la storia la scrivono sempre i vincitori”? Ovvero: quanto è manipolabile la storia?

«La frase è meno vera di quanto si creda. Può capitare spesso che la storia ufficiale politica faccia una cronaca di parte, ma questo non accade per la storia quotidiana dove ci sono sempre tanti tipi di fonti diverse. E ci sono tante tracce materiali e scritte che raccontano dei perdenti. Il mestiere degli storici è proprio dubitare di qualsiasi cronaca ufficiale, applicare il metodo critico e porsi il dubbio. In quel dubbio c’è tutta la differenza». 

Abbiamo parlato di difficoltà oggi di capire quale e come insegnare la storia a scuola alle nuove generazioni. E però fuori da scuola stiamo assistendo a un’attenzione forse senza precedenti a questa materia che è addirittura sbarcata in Tv in prima serata di recente. Come se lo spiega?

«Non è semplice: io credo da una parte che un certo modo di sentire e studiare la storia stia battendo in ritirata perché manca l’idea di partecipazione e condivisione e le comunità si fondano più sul racconto che sullo scambio di beni materiali. Oggi ci troviamo in una società parcellizzata dove è il singolo che conta e questo fa sì che ci interessi meno la storia come collante sociale, ma allo stesso tempo sentiamo il bisogno di storie che ci rimandino alle nostre radici. Abbiamo tutti bisogno di radici, ma oggi queste sono più labili. Il successo mediatico della divulgazione storica credo sia una spia di una necessità che non viene meno e che ha alla base sempre le stesse domande».

All’ingresso di Classis è riportata una citazione di Momigliano che dice: “Quando voglio capire la storia d’Italia, prendo un treno e vado a Ravenna”. Lei viene spesso a Ravenna, condivide la frase?

«A Ravenna vengo sempre molto volentieri, ma mi pare un’affermazione forse un po’ eccessiva, quanto dice è vero per tutta o quasi l’Italia, è la fortuna di vivere in un luogo dove la linea del tempo corre davvero attraverso i millenni».

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