Dimmi come illumini e ti dirò chi sei

Una tassonomia degli addobbi cittadini, per contrastare la depressione natalizia

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Foto di Adriano Zanni

Sono figlio di commercianti, mio babbo aveva un negozio di piatti a Cesena, di fronte a quella che oggi si chiama Galleria Pescheria (allora si chiamava Pescheria). Ricordo anni in cui si facevano riunioni in Confcommercio e manifestazioni in giro per i palazzi comunali, in seguito alle saltuarie decisioni di risparmiare un pochino sul budget del Comune tagliando qualche euro di illuminazione natalizia. I commercianti del centro non se la potevano ciucciare: le strade meno addobbate erano le strade che fatturavano meno soldi.

Immagino di avere avuto, all’epoca, un atteggiamento molto più permissivo e forse perfino partecipe alle festività natalizie, che per tutta un serie di motivi (non ultimo il fatto che mio babbo ha chiuso il negozio e se n’è andato in pensione) negli anni dell’adolescenza si è completamente estinto. La recente decisione di mettere su famiglia ha parzialmente ingentilito il mio atteggiamento nei confronti degli addobbi natalizi: nello starter pack del genitore è compresa la capacità di essere felice per interposta persona e non si riesce a essere indifferenti all’estasi di un bambino che si trova per la prima volta un regalo di Babbo Natale in soggiorno.

Detto questo, se fossi scapolo e libero di lasciare libero sfogo al mio inner scrooge, scambierei in tranquillità i giorni che vanno dal 15 dicembre al primo gennaio con qualunque periodo dell’anno, compresa la prima metà di settembre (se interessati allo scambio contattatemi in pvt, astenersi perditempo). Esiste un vero e proprio partito di hater del Natale e mi piace ancora oggi dichiarare il mio sostegno esterno. Conosco nell’intimo quel particolarissimo anticlimax per cui ti senti sfiorire sempre di più, e cadere inesorabilmente nello sconforto, man mano che fuori da casa tua si moltiplicano le luci e gli addobbi; la gente che ci vede così a disagio e presi male ci prende ancora per il culo: e fatti una risata, e fatti un brulé, e fatti una fetta di panforte. Non capiscono. Ci siamo abituati, e abbiamo sviluppato alcune abilità funzionali di base per sopravvivere alle effusioni di gioia natalizie. Tra le varie, una tassonomia rigorosa dell’estetica natalizia in Romagna, che conosciamo a menadito, anche solo per evitare i posti in cui si rischia la maggior crisi di rigetto.

Una premessa necessaria: in Romagna esiste un anno zero dell’addobbo natalizio moderno, ed è quello in cui – credo all’improvviso, ma non ho modo di verificare le fonti – Milano Marittima ha deciso di diventare Milano Marittima anche d’inverno. Il resto dei comuni romagnoli si è sempre arrabattato unendo generosi impegni di budget pubblico alla creatività delle persone deputate agli addobbi, chiunque essi siano. Ricordo con una certa meraviglia la comparsa di una palla gigante, in anni recenti, nella piazza di fianco a Palazzo del Capitano; i bambini che corrono a farsi una foto, con o senza Babbo Natale tra i piedi, e un clima di opulenza che s’impadroniva delle teste dei passanti, come se la città di Cesena fosse riuscita a impadronirsi di trecento metri quadri della New York di Serendipity (il terzo più bel film di Natale di sempre, ovviamente dopo Trappola di cristallo e Una poltrona per due). Qualche tempo dopo, la stessa palla, o una molto simile, è comparsa all’intersezione delle due ali dell’Esp di Ravenna. Milano Marittima, a quel punto, aveva già da tempo iniziato ad intonare un beffardo hold my beer. Passeggiando per i viali della località, a rimirare le vetrine delle boutique e dei negozi di streetwear d’alto bordo, si diventa comparse di una delle visioni natalizie più psichedeliche di cui io abbia mai avuto notizia. Ci sono i banchetti di castagne e vin brulé, e vabbè, quelli ce li hanno tutti. Ci sono palle di Natale che sembrano progettate da Buckminster Fuller, orsetti e babbi natali alti 30 metri, impalcature che ad abitarci dentro andrei in bancarotta solo a pagare l’Imu. Ci sono, o ci sono state, esperienze enhanced di microvillaggi natalizi a pagamento in cui i bambini possono esplorare i cieli d’Europa nella slitta delle renne in realtà virtuali, c’è la rotonda di ghiaccio più grande d’Europa, come strillato diverse volte dai comunicati stampa (e in effetti, a sapere che l’attrazione natalizia di punta di una città del ravennate è UNA ROTONDA, viene da piangere di gioia). Ogni anno è tutto più violento e aggressivo, ed è stata una folgorazione scoprire (avevo già chiuso il pezzo) che l’enhancement di quest’anno è una batteria di cannoni che spareranno neve artificiale su base oraria per darci l’illusione di stare guardando la vetrina di un negozio di costumi da bagno in Lapponia.

Tutto quello che succede nelle altre città, al confronto, sembra quasi un’esperienza intimista. A partire dal presepe sul porto canale di Cesenatico, che a mio parere continua ad essere l’unico vero must-see natalizio della regione ma che in qualche modo ha iniziato a perdere una parte della sua importanza strategica. Ma come detto, è solo una questione di arrabattarsi. Le luminarie dei centri cittadini sono in una fase di crisi, un po’ perché c’è da risparmiare soldi e un po’ per via (paradossalmente) del progresso tecnologico. Nel senso che la possibilità di reperire luminarie sempre più spettacolari a prezzi sempre più bassi rende qualunque abitante del centro un potenziale concorrente dell’amministrazione comunale, che ovviamente beneficia dall’impegno dei privati ma non riesce a metterli assieme in un progetto unico e organico. In questo campo, un centro cittadino vale l’altro.

Fa piacere registrare che anche nel campo dell’addobbo natalizio si è soggetti a mode e periodi, come nel passato recente, quando l’esempio di Bologna ha reso inevitabile l’apparizione, anche sulle strade del centro delle città della provincia, di frasi a tema (Ravenna ovviamente ci ha messo citazioni della Commedia, anche se io amo pensare che l’animo natalizio di Dante Alighieri rivaleggiasse col mio). Naturalmente non è il mio pane quotidiano. Preferisco di gran lunga la resilienza dei paesini, delle frazioni, dei posti in cui una pro loco improvvisata e senza quattrini si adopera per tenere in funzione gli stessi cinque fili di luci natalizie per 25 anni, arrampicandosi sul balcone di casa di Gino e della Ines per attaccarlo all’illuminazione pubblica mentre qualche scoppiato si mette il giubbino di emergenza e si occupa di fermare il traffico, magari con la gente che mugugna per strada che ogni anno le luci sono più tristi e vuote e fortuna che la Rita ha illuminato l’albero grande nel giardino sulla via principale. È un atteggiamento di resistenza attiva al cambiamento e alla normalizzazione della gioia natalizia, un moto di orgoglio dal passato che negli anni delle Milano marittimæ ha risvolti eroici, e sembra introdurre una nuova narrativa. Un mondo alternativo di piccoli e medi babbi natale con le pezze al culo che reclamano il loro diritto di esporre le insegne, cucinare il baccalà con le patate e giocarsi la tredicesima a Bestia la sera del 26.

Cesenate trapiantato a Ravenna, Francesco Farabegoli scrive o ha scritto su riviste culturali come Vice, Rumore, Esquire, Prismo, Il tascabile, Not

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