Entrò nei servizi segreti grazie a un prete: Mancini racconta la sua vita da 007

L’ex carabiniere che viveva a Lugo ha scritto un libro in cui ricostruisce anche i motivi del suo pensionamento forzato dopo la vicenda dell’incontro con il senatore Renzi in autogrill a dicembre 2020. Una carriera al Sismi di 35 anni: dagli anni di piombo vissuti con la squadra del generale Dalla Chiesa alle indagini di intelligence che sventarono un attacco all’ambasciata di Beirut. «Sono stato arrestato due volte ma mai andato a processo»

ManciniLa raccomandazione di un parroco delle campagne ravennati con il generale al comando del Sismi. Così sono cominciati i 35 anni di carriera da agente segreto per Marco Mancini. L’ex carabiniere 63enne ha raccontato l’aneddoto al ristorante Casa Spadoni il 26 gennaio in occasione di un incontro per la presentazione del suo libro “Le regole del gioco” appena uscito per Rizzoli.

Stando ben attento a non rivelare nulla che sia coperto dal segreto di Stato – «Perché altrimenti mi prenderei 25 anni di galera» -, Mancini ha dialogato con il giornalista Maurizio Marchesi e ha raccontato dettagli di missioni nell’Italia degli anni di piombo o nell’Iraq delle brigate jihadiste, ha svelato curiosità su come si lavorasse sotto copertura nell’epoca pre internet, ha ricostruito a memoria le descrizioni di criminali visti l’ultima volta negli anni ‘80 con una dovizia di particolari tale che più di altre circostanze ha mostrato l’abilità dello 007. E il pubblico numeroso intervenuto alla serata si è dimostrato interessato a una figura che ha attraversato una fetta di storia d’Italia.

Nato a Castel San Pietro, Mancini ha trascorso l’infanzia con la famiglia a Sant’Alberto di Ravenna per poi trasferirsi a Lugo, una casa che a un certo punto ha dovuto vendere per ragioni di sicurezza e trasferirsi altrove per le minacce di morte ricevute.

Don Isidoro fu il prete che lo fece entrare al Sismi. Agli inizi degli anni ‘80, Mancini si stava congendando dalla sezione speciale anticrimine del generale Carlo Alberto dalla Chiesa con l’intenzione di imboccare la carriera in magistratura (il fratello Alessandro è stato procuratore capo a Ravenna fino a pochi anni fa). Ma quel parroco, insegnante di religione del carabiniere, lo accompagnò al ministero della Difesa – «usando una piantina di Roma tenuta in mezzo al Vangelo» – per incontrare il generale Ninetto Lugaresi che conosceva di persona.

«A 21 anni giravo con tre pistole addosso. Non perché fossi fanatico, ma perché ogni situazione richiedeva l’arma adatta, per evitare di ferire innocenti in caso di sparatorie». Ma l’arma non puoi tenerla a portata di mano: «In certe situazioni devi mantenere le mani in vista così che non pensino che sei armato». Usò la pistola, ma senza sparare nemmeno un colpo, per arrestare uno dei terroristi più ricercati d’Italia, Sergio Segio. «Lo trovammo a Milano. Lo riconoscemmo dalla camminata, perché quella è come un’impronta digitale e parla più del volto. Mi avvicinai alle sue spalle e gli puntai la pistola alla nuca armando il cane. Lo chiamai Sirio, il nome di battaglia, e si consegnò».

Ma ci sono state anche scene degne di un b-movie poliziottesco. «Un giorno all’alba dovevamo fare un arresto in un appartamento al settimo piano. Rimanemmo bloccati in ascensore e la prima persona che venne a chiederci aiuto fu la madre dell’uomo che dovevamo arrestare. Con una scusa riuscimmo a farla allontanare e poi a uscire dall’ascensore».

Mancini ha fatto parte della squadra che ha sventato, parole sue, «l’11 settembre dell’Italia». Era il 2004 e le fonti in contatto con i servizi italiani rivelarono che Al Qaeda aveva pianificato un attentato esplosivo all’ambasciata italiana di Beirut. «Riuscimmo a catturare un pericoloso ricercato mentre faceva il sopralluogo per misurare lo spessore dei muri. Sequestrammo 400 kg di tritolo e una quarantina di arresti».

Il libro, così come la serata faentina, è anche un modo con cui Mancini prova a togliersi i famosi sassolini dalla scarpa. «Due volte sono stato arrestato e due volte l’indagine si è conclusa con il mio proscioglimento. Però sui giornali in prima pagina è andata solo la notizia degli arresti». Il ricordo del periodo in carcere è particolarmente forte: «Ero in isolamento e non mangiavo quello che mi davano perché avevo paura per la mia sicurezza. Mangiavo solo due volte a settimana quello che mi portava la mia famiglia. Ho perso 19-20 kg di peso in sei mesi di detenzione preventiva».

Della detenzione ricorda anche la visita di Francesco Cossiga: «Una persona meravigliosa con cui ho in comune origini sarde. Parlammo tutta una mattina usando il dialetto gallurese che conosco grazie a mia madre. Lui mi consegnò una copia del romanzo “Il giovane Holden”. Io non sapevo che dargli e allora presi il cartellino che indicava le informazioni del detenuto sulla porta della cella. Era l’unica cosa che potevo dargli». Quel cartellino ora è nel portafoglio di Mancini e l’ha mostrato alla platea: «Al funerale di Cossiga me lo diede un suo collaboratore dicendo che il presidente si era raccomandato di farmelo riavere».

L’apertura e la chiusura della serata, manco a dirlo, sono state attorno ai fatti del 23 dicembre 2020 in un autogrill di Fiano Romano. Mancini incontrò il senatore Matteo Renzi in circostanze che apparvero singolari: un autogrill chiuso per la pandemia. «Dovevamo vederci al mattino al Senato ma Renzi aveva altri impegni e mi diede appuntamento in quel punto. Dovevamo solo scambiarci gli auguri di Natale. In tutto siamo rimasti lì tredici minuti». La circostanza, rivelata dalla trasmissione Report, si è tramutata nella fine della carriera diplomatica di Mancini: «Ero in procinto di ottenere una promozione, avevo già parlato con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, avrei avuto la direzione di un dipartimento. Ma saltò tutto e mi hanno indotto alla pensione. Mi sembra incredibile che con tutte le polemiche che ci sono state io non sia mai stato interrogato da nessuno su questa vicenda».

E ora, da pensionato forzato, Mancini non può far altro che godersi gli affetti familiari, moglie e figlia, per troppo tempo trascurati: «Ma avrei volentieri continuato a servire lo Stato italiano».

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