Il calciatore in fuga dalla guerra d’Israele: «Ho visto i missili dalla finestra»

Lorenzo Paramatti, da Russi, era l’unico italiano nel campionato di serie A israeliano e si trovava a Tel Aviv nei giorni dell’attacco di Hamas

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Lorenzo Paramatti alla presentazione con il Maccabi Petah Tiqwa

«Guardando fuori dalla finestra ho visto i missili di Hamas esplodere nel cielo, intercettati dal sistema di difesa israeliano. Abitavo vicino a un ospedale e in strada era un viavai di feriti e di persone armate. Avevo paura: è stato qualcosa di forte e incredibile, che mai avrei pensato di poter vivere»

A parlare (in questi giorni è diventata virale una sua intervista alla rivista sportiva Cronache di Spogliatoio) è Lorenzo Paramatti, calciatore professionista di Russi, figlio d’arte (Michele è stato una bandiera del Bologna, oltre che campione d’Italia nel 2001 nella Juventus di Zidane). A 28 anni, la scorsa estate Paramatti ha firmato un contratto fino al 30 giugno prossimo con il Maccabi Petah Tiqwa, club della massima serie israeliana con sede a 10 km da Tel Aviv. Unico italiano dell’intero campionato, lo scorso 7 ottobre è stato tra i “testimoni” dell’attacco di Hamas a Israele, che ha poi dato vita alla guerra tuttora in corso. «Ricordo che mi sono svegliato con il rumore di una sirena di allarme e dai messaggi di compagni e dirigenti che ci dicevano di stare tranquilli, ma anche di restare in casa, perché in Israele stava succedendo qualcosa che non era mai successo prima».

Nel giro di qualche ora la notizia dell’attacco di Hamas era arrivata in tutta Europa. «Sono state subito annullate tutte le partite di quel weekend. In un secondo momento, ho capito che quelle sirene stavano avvertendo i cittadini a correre nei bunker». Il Maccabi Petah Tiqwa già dopo poche ore ha contattato tutti i giocatori stranieri, tra cui Paramatti, chiedendo se volessero tornare nei loro Paesi e mettendo loro a disposizione dei voli. «L’8 mattina siamo partiti. La Farnesina mi contattò il giorno dopo chiedendomi se volevo tornare e rimasero increduli quando gli dissi che ero già in Italia».

Come mai la scelta di andare a giocare in Israele?
«Avendo fatto già alcune esperienze all’estero, avevo voglia di farne una nuova, di vita, oltre che calcistica. C’è stata questa opportunità, mi invogliava, mi avevano parlato molto bene della città. Tel Aviv in effetti è una delle più belle che abbia mai visitato in vita mia. Dal punto di vista calcistico c’era poi la possibilità di confrontarmi con realtà importanti, squadre che si erano messe in vetrina in Champions League. Tra i miei compagni c’era Ben Sahar, per dire, con un passato anche al Chelsea».

Paramatti Israele

In borghese in Israele

Ti preoccupava la situazione geopolitica?
«Sapevo naturalmente che c’è sempre stato un equilibrio precario, mi sono informato con l’ambasciata e il consolato: tutti mi avevano rassicurato sul fatto che fosse comunque uno dei posti più sicuri al mondo, anche grazie al sistema di difesa israeliano (l’Iron Dome, ndr)».
C’erano già stati segnali preoccupanti, nella vita di tutti i giorni?
«Diciamo che anche prima dell’attacco alcune cose ti colpivano. Per esempio, un giorno mi sono reso conto che il fisioterapista che mi stava massaggiando, sotto al camice, aveva una pistola, che teneva “per sicurezza”, diceva. Il nostro match analyst invece, per dirne un’altra, era stato chiamato nell’esercito e una volta si presentò al campo vestito da militare, con un mitra enorme».
Dopo l’attacco e il tuo ritorno in Italia, cosa è successo?
«La federazione ha sospeso il campionato fino al 2 dicembre, quando sono quindi dovuto tornare in Israele per riprendere l’attività. Dopo alcune settimane, però, ho deciso di rescindere il contratto, come quasi tutti gli altri stranieri. L’ansia e la paura, mie e soprattutto dei miei famigliari, erano troppe. La mia vita era più importante».
In questo periodo sei riuscito a farti un’idea più precisa del conflitto israelo-palestinese? Da che parte stai?
«Non voglio schierarmi, io l’ho vista per forza di cose dalla parte di Israele, ma quando ci sono dei morti e delle guerre la colpa credo sia sempre di entrambe. Quando ero lì ho cercato di informarmi, di capire quali fossero i motivi che hanno portato a questa situazione. Studiando la storia si può avere solo una vaga idea, ma certe situazioni vanno vissute in prima persona e credo che noi stranieri non potremo mai capire. I miei compagni erano pronti ad andare in guerra senza nessun tipo di problema, per difendere il proprio Paese. L’unica cosa che posso dire è che non si può generalizzare, non tutti gli israeliani la pensano nello stesso modo e lo stesso vale per i palestinesi, che non sono certo tutti terroristi di Hamas».
Dal punto di vista calcistico, invece, ora ti ritrovi senza squadra…
«Purtroppo avevo già iniziato l’anno al Fcu Craiova, in Romania, e non posso chiudere in un’altra squadra perché, per regolamento Fifa, un giocatore non può svolgere una stagione calcistica con tre maglie diverse. Speravo in una deroga, perché non ho certo rescisso il contratto in Israele per un mio capriccio – c’era la guerra – ma non mi è stata concessa. Ora mi alleno per conto mio, con alcuni contatti in Italia avviati per la prossima stagione: sto bene, sia mentalmente che fisicamente, e vorrei tornare a giocare dalle nostre parti».

Paramatti Craiova

Paramatti con la maglia del Craiova

Come sono nate le tue esperienze in Romania?
«Quando mi svincolai dal Gubbio (in serie C, a fine 2018, ndr) con il mio procuratore espressi il desiderio di fare un’esperienza di vita all’estero. Ci fu questa occasione in Romania, un Paese per certi versi molto simile all’Italia, dove è anche più facile integrarsi. Giocai al Timisoara, nella serie B romena: è stato un modo per mettermi in mostra e crescere anche dal punto di vista umano. Grazie al calcio, in fin dei conti, ora parlo quattro lingue e ho potuto conoscere nuove culture. Finita quell’esperienza sono tornato in Italia per firmare con il Rimini, poche settimane prima della pandemia. Con lo stop ai campionati e i problemi del Covid mi sono nuovamente svincolato e ho deciso di tornare in Romania, sempre in serie B, all’ambizioso Fcu Craiova, dove ho vinto il campionato e ho quindi potuto disputare nei due anni successivi altrettante stagioni in serie A, togliendomi grandi soddisfazioni, confrontandomi con squadre importanti e giocando in stadi con 20-30mila tifosi sugli spalti».
Sei ancora legato a Russi?
«Di base sono ancora di stanza a Russi, dove ho tutti i miei amici, anche se ora di fatto vivo a Rimini con la mia fidanzata. Mio padre, invece, abita ancora a Godo».

Paramatti Juve

Nel ritiro della Juve, da bambino, con il padre Michele

Ecco, com’è stato essere il “figlio di Paramatti”?
«Purtroppo in tanti criticano sui social, come se fosse stato un vantaggio per la mia carriera. Ma se avessi avuto davvero la spinta di mio padre non credo che sarei ripartito dalla serie B romena, né che sarei andato a giocare in mezzo alla guerra, sacrificando spesso la mia vita privata. La verità è che nessuno mi ha mai regalato niente e anzi forse sono stato più penalizzato che aiutato. Mio padre è uscito totalmente dal mondo del calcio e non ha voluto nemmeno farmi da procuratore, al massimo mi dà qualche consiglio di campo».
Che ricordi hai del periodo di tuo padre alla Juve?
«Ero molto piccolo, una sorta di mascotte. Ricordo in particolare i dispetti di Tudor, sempre in maniera simpatica, ma che io da bambino non capivo e spesso mi facevano piangere. Mi nascose la maglia che mi aveva appena regalato Del Piero, mi faceva i baffi con il pennarello indelebile… Ricordo poi un regalo di Inzaghi, che mi diede un peluche con dentro i cioccolatini che gli aveva a sua volta regalato una tifosa. Ho tanti bei ricordi».
Il calcio è stato al centro della tua vita fin da piccolo…
«Sì, ma mio padre non mi ha mai spinto a giocarci. Ho provato tutti gli sport prima di decidere di fare calcio, a Russi, insieme agli amici. Poi ho avuto la fortuna di fare dei provini e di fare settori giovanili importanti all’Inter e al Bologna, prima di rompermi il ginocchio e ricominciare da capo, guadagnandomi tutto quello che ho ottenuto sul campo, senza regali da nessuno».

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