Tra fiumi e valli ci sono 800 capanni, uno su quattro è abusivo

Nel 2013 l’ultimo aggiornamento del regolamento comunale a Ravenna che premia chi toglie i materiali inquinanti
L’architetto Guerrieri, ex assessore: «Uffici troppo rigidi, ci ritroviamo con strutture che sembrano baite di montagna»

Capanno

Se si parla di capanni a Ravenna, i 74 chiamati balneari perché posizionati tra spiaggia e pineta sono solo una piccola parentesi. La maggior parte di queste strutture tipiche del territorio è rappresentata invece da manufatti, solitamente più grandi, a ridosso dell’acqua: lungo le aste o alla foce dei fiumi o nelle valli. Un censimento sommario di qualche anno fa ne conteggiava quasi ottocento, di cui circa un quarto da considerare del tutto o in parte abusivi. A seconda del luogo in cui sorgono cambia la proprietà del fondo. Pochi sono su terreni privati, quasi tutti su suolo pubblico che con il passare degli anni è stato incluso nelle aree di tutela ambientale. L’elenco degli enti coinvolti è lungo: Comune, Regione, Autorità portuale, Consorzi di bonifica, Demanio Idrico Regionale e Marittimo statale. In un certo senso, quasi tutti nacquero senza autorizzazione.

I capanni che conosciamo oggi sono l’eredità di piccoli ripari per caccia e pesca realizzati in ambiente naturale e di cui le ricerche storiche hanno rintracciato testimonianze già nel Ottocento. È tra gli anni ’60 e 70’ del Novecento che cominciano a diventare più accoglienti per essere spazi di convivialità. La proliferazione e l’espansione è avvenuta in maniera piuttosto selvaggia, preoccupandosi poco di utilizzare materiale ecosostenibile: eternit, plastica, cemento in abbondanza. Un primo regolamento comunale è del 1975. Nel 2013 il Comune ha approvato un aggiornamento con l’intenzione di mettere ordine e sanare le situazioni più gravi su terreni comunali: circa 250 insediamenti nelle pialasse Baiona e Piomboni. Chi non aveva un titolo di concessione valido e non era in grado di dimostrare di aver costruito prima del 1967 – anno della legge che imponeva il possesso dei permessi per quei manufatti – doveva demolire. A chi era in regola con la concessione veniva dato un incentivo: la riqualificazione con rimozione di materiali inquinanti non richiedeva di ridurre l’estensione ai 24 mq massimi imposti dai precedenti regolamenti per le nuove realizzazioni. Si otteneva una concessione di sei anni (cioè fino al 2021 ma prorogata due volte fino agosto 2025) per rimozione di abusi e materiali incongrui (un concetto più ampio della semplice manutenzione) e a lavori conclusi un rinnovo fino al 2030.

Alla scadenza naturale della concessione – o in caso di rinuncia da parte del titolare – il capanno passa di fatto nella disponibilità del Comune in quanto proprietario dell’area. A quel punto viene pubblicato un avviso di gara per una nuova assegnazione. Diverso lo scenario per i capanni lungo i fiumi, cioè su Demanio idrico che fa capo alla Regione. La maggior parte sono poggiati a terra ma in caso di intervento di ristrutturazione la Regione chiede che vengano sopraelevati per sicurezza idraulica. Cioè un lavoro da diverse decine di migliaia di euro. Risultato? Nessuno lo sta facendo, i manufatti restano senza concessione, per quanto siano legittimi dal punto di vista del regolamento comunale, e la Regione li tollera. Chi in questi anni ha voluto risanare il proprio capanno, si è trovato in un labirinto di burocrazia per le tante voci da interpellare. Ne sa qualcosa l’architetto Guido Guerrieri, socio di un capanno, che sta seguendo diversi progetti di ristrutturazione: «Per intervenire occorre il permesso del Comune perché è una pratica edilizia, dell’ente proprietario del terreno, del Parco del Delta se è in zona protetta, della Soprintendenza per la paesaggistica, l’eventuale sismica e, a seconda del tipo di intervento o del sito, del Demanio marittimo e il nulla osta dell’ufficio Idraulico della Regione».

Guerrieri conosce bene il regolamento comunale del 2013 perché all’epoca era assessore comunale all’Ambiente e contribuì alla sua stesura con il collega di giunta Gabrio Maraldi (Urbanistica). «Il principio ispiratore era quello di favorire una riqualificazione delle strutture per migliorare il decoro e l’impatto ambientale, ma senza dimenticare le peculiarità di questi manufatti che molto spesso sono unici e belli proprio per questo». L’architetto però sta assistendo a un altro scenario: «Gli uffici comunali si sono irrigiditi su alcune interpretazioni delle norme che non sono richieste e il risultato è paradossale: lavandini esterni vietati perché deturpano il paesaggio, siepi che non si possono mettere perché fanno recinzione e solo recentemente è stata chiarita la possibilità per i capanni di avere uno spazio adibito alla preparazione e cottura di cibi. Quest’ultimo era un completo non senso: non esiste nella nostra cultura un capanno che non abbia la possibilità di grigliare o friggere l’acquadella». Non solo: «Molti dei capanni abbattuti e ricostruiti in legno ora assomigliano più a baite di montagna a cui mancano solo i gerani sul balcone, ma nulla hanno a che fare con l’anima vera di questo territorio».

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