«A Gaza in atto un genocidio che non può lasciare indifferenti»

Pubblichiamo una testimonianza dell’avvocato ravennate Andrea Maestri che ha partecipato – insieme a operatori umanitari, 15 parlamentari (tra cui la ravennate Ouidad Bakkali del Pd), 13 giornalisti e 2 professori universitari – alla carovana solidale “Rafah – Gaza oltre il confine” organizzata da Aoi (Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale) in collaborazione con Amnesty International Italia, Arci e Assopace Palestina.

Andrea Maestri Gaza

Giunti al Cairo il 3 marzo, abbiamo ascoltato le testimonianze dirette di numerose organizzazioni e ong attive sul campo per avere un quadro della situazione del popolo palestinese di Gaza, dopo 4 mesi dall’inizio dell’attacco di terra e aereo da parte di Israele. Nei giorni successivi, dopo avere attraversato il tunnel sotto al canale di Suez e superato numerosi check point egiziani nel deserto del Sinai, abbiamo raggiunto la località di Al Arish per seguire il tragitto dei container di aiuti umanitari riempiti grazie alla raccolta fondi EmergenzaGaza e, da lì, il valico di Rafah, al confine tra Egitto e la Striscia di Gaza.

Con i nostri corpi abbiamo voluto testimoniare la nostra vicinanza e la nostra concreta solidarietà al popolo palestinese e chiedere l’immediato cessate il fuoco per consentire l’accesso degli aiuti umanitari bloccati. Gaza era un luogo pieno di persone e di luce, dove negli orari di preghiera risuonava l’adhan dai minareti delle innumerevoli moschee, i bambini giocavano in strada, il mare occhieggiava con la sua spuma luccicante sugli scorci dei palazzi fitti, nei piccoli mercati risuonavano le voci, in strada i saluti fragorosi dei ragazzi, nelle scuole si studiavano la democrazia e i diritti umani e 600.000 bambini prendevano parte al “parlamento della scuola” istituito dall’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente, che a Gaza ha 23.000 operatori tuttora attivi, anche nella fase dell’emergenza.

Tanti, tantissimi giovani e tanti, tantissimi abitanti in pochi chilometri quadrati, stretti nella Striscia, oggi senza acqua potabile, senza cibo a sufficienza (durante la nostra presenza nella regione, Unicef diramava la notizia della morte di decine di bambini nel nord della Striscia per fame e stenti), senza un tetto per ripararsi, chi sopravvissuto alla distruzione della propria casa e alla perdita di tutti i membri della propria famiglia, chi mutilato, amputato, ferito, chi vittima dell’epidemia di diarrea ed epatite che si sta diffondendo per la carenza delle minime condizioni igieniche. C’è un solo bagno ogni 600 persone, quando gli standard internazionali ne prevedono uno per ogni 20. A Rafah, ultima città a sud della Striscia, al confine con l’Egitto, vivevano 280.000 palestinesi; ora ne raccoglie un milione e 600 mila, costretti a lasciare il nord e il centro dove città e quartieri insieme a scuole ed ospedali sono stati rasi al suolo.

Dal 2007 il blocco di Israele su Gaza, che controlla lo spazio aereo, marittimo, l’entrata e l’uscita delle persone e delle merci dai pochi valichi esistenti, è divenuto totale. Per il diritto internazionale, il Paese occupante ha l’obbligo giuridico di assicurare alla popolazione civile la sicurezza, l’incolumità e standard di vita minimi che concernono l’accesso ai beni essenziali (quali acqua pulita e cibo sufficiente) e il godimento dei diritti umani fondamentali. Dal 7 ottobre 2024, dopo l’attacco terroristico di Hamas, tutto è cambiato: il governo di Netanyahu ha posto sotto assedio la Striscia e avviato una massiccia operazione militare di bombardamenti, con il dichiarato scopo di annientare Hamas ma con l’evidente conseguenza di un immane massacro di civili. I numeri sono drammatici: 70.000 persone ferite, 30.000 persone morte, 8.000 dispersi, 17.000 bambini orfani. Delle oltre 30.000 vittime civili accertate, oltre il 65% sono donne e bambini: normalmente, nei conflitti, quella percentuale riguarda i maschi adulti e anche questo dato rende l’idea della straordinaria drammaticità di quanto sta avvenendo. La Corte Internazionale di Giustizia ha emesso un’ordinanza cautelare nei confronti di Israele (che finora l’ha ostentatamente disattesa) affermando il “rischio plausibile di genocidio”. Genocidio, una parola forte e terribile che molti non vorrebbero nemmeno sentire ma che ormai si è plasticamente inverata in un quadro di catastrofe umanitaria senza precedenti.

Ma a Gaza non si muore solo sotto le bombe: a Gaza si muore anche per carenza di aiuti perché Israele nega l’accesso attraverso il valico di Rafah a tonnellate di materiali donati da paesi, organizzazioni e ong. Nello sterminato piazzale di sabbia e polvere a poche centinaia di metri dal valico circa 1.500 camion carichi di aiuti sono in attesa e con loro i camionisti, costretti per settimane e mesi all’attesa in condizioni difficilissime e lontano dalle loro famiglie. Camminando mestamente tra i corridoi del magazzino di Al Arish, dove vengono portati gli aiuti rifiutati al valico, in alcuni scatoloni leggo “rejected” e si tratta di sedie a rotelle per gli invalidi, bombole d’ossigeno, desalinizzatori e filtri per l’acqua, generatori di corrente, incubatrici per neonati… Fuori dalla warehouse di Al Arish sono parcheggiate decine di ambulanze equipaggiate per essere subito utilizzate ma Israele le fa entrare dal valico col contagocce. Tre tir carichi di aiuti raccolti dalle nostre ong nell’ambito di EmergenzaGaza riescono a superare i controlli e a entrare nella Striscia ma sono una goccia nell’oceano.

L’ordinanza cautelare n. 192 pronunciata nei confronti di Israele dalla Corte Internazionale di Giustizia il 26 gennaio scorso che impone intanto ad Israele di garantire ai palestinesi l’assistenza umanitaria e i servizi di base, parla in realtà anche ai paesi terzi come l’Italia, i quali sono tenuti, in base alla Convenzione, ad attivarsi per prevenire e reprimere il genocidio, il che riguarda per esempio la sospensione della vendita di armi e l’immediato rifinanziamento dell’Unrwa. Come noto, l’accusa israeliana – non suffragata da nessuna prova – che una decina (sui quasi 30.000) dipendenti dell’Unrwa sia stata implicata nell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre è sembrata sufficiente a molti stati, tra cui l’Italia, per bloccare i finanziamenti, privando il popolo palestinese di Gaza di aiuti fondamentali sul campo che solo questa agenzia delle Nazioni Unite può garantire, così aggravando le condizioni della popolazione civile.

La mia partecipazione alla missione è avvenuta nella veste di socio e volontario della ong riminese EducAid che opera in Palestina da oltre vent’anni con progetti di cooperazione internazionale nei campi dell’educazione inclusiva, del supporto psico-sociale e della promozione dei diritti delle persone con disabilità con sedi e team di personale espatriato e palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, portando a compimento interventi di grande importanza per le fasce più vulnerabili della popolazione. Tra questi la fondazione del Centro per la Vita Indipendente per le persone con disabilità di Gaza City, punto di riferimento per l’accesso a servizi essenziali e per l’inserimento nel mondo del lavoro. Una struttura dalle caratteristiche innovative, unica in tutto il Medioriente. Dopo il 7 ottobre è riuscita a mantenere l’operatività anche nella Striscia sebbene il Centro non esista più e lo staff palestinese sia stato costretto ad evacuare verso Sud. Proprio grazie all’eroico impegno dei 30 collaboratori sul campo e alla raccolta fondi “Emergenza Gaza” sta fornendo assistenza e generi di prima necessità a persone con disabilità e relative famiglie.

Andrea Maestri, avvocato e attivista per i diritti umani

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