Johnson, che arriva dalla Nigeria e sogna di poter di nuovo insegnare Shakespeare

«L’Europa non è come me l’aspettavo, la immaginavo come un viaggio nel futuro»

Fidelis Johnson

Fedelis Johnson

di Matteo Cavezzali

Fedelis non si chiamava Fedelis. Il suo nome era Fidelis, con la “i”, ma hanno sbagliato a scriverlo nel documento. Poco importa, un nome è solo un nome, e poi tutti lo chiamano con il suo cognome: Johnson.

Johnson ha cinquanta anni ed è un appassionato lettore di Shakespeare, Jonathan Swift e Wole Soyinka. Quando insegnava in una scuola superiore di Agbor in Nigeria i suoi studenti, dopo la fine delle lezioni, lo seguivano a casa e passavano serate a leggere poesie, mangiare e fumare assieme. «I ragazzi non fumano in Europa, ma da noi era normale».

Ha l’aria austera Johnson, il volto di un uomo affaticato. Ha vissuto in molte città, fatto lavori diversi, conosciuto tante persone, vissuto molte delusioni e abbandoni. Johnson scrive poesie. Le conserva in un taccuino. Ne ha centinaia. «Ricordo una volta, facevo le superiori, quando l’insegnante mi interrogò. Andavo bene a scuola, credevo di sapere la risposta, mi alzai e iniziai a parlare convinto. Quando finii l’insegnante mi prese in giro, disse che avevo completamente sbagliato, tutti risero e io mi vergognai tantissimo. Mi sentii umiliato. Quel giorno scrissi per la prima volta».

«La mia prima poesia vera e propria però la scrissi quando arrivai in Europa. Avevo immaginato molte volte come fosse l’Europa, per me era un luogo con tecnologia avanzata, moderno, lo immaginavo come un viaggio nel futuro. Quando arrivai invece capii presto che mi sbagliavo, e che con il mio documento non avevo la possibilità di muovermi. Per me poter viaggiare, spostarmi, conoscere nuove cose è sempre stata una ragione di vita, capire che non potevo più farlo mi fece sentire braccato. La mia prima poesia la intitolai Il fuggitivo. Molte delle mie poesie nascono dalla sofferenza. Il dolore più grande della mia vita è stato perdere mio fratello. Era molto più piccolo di me, come un figlio. Lo portavo con me quando insegnavo a scuola. Me lo legavo alla schiena, camminavo con lui sul dorso fino a scuola e lo lasciavo sotto un albero con dei giochi. Lo controllavo dalla finestra e quando aveva bisogno fermavo la lezione e lo andavo ad aiutare. Quando partii per l’Europa lo lasciai in Nigeria. Quando è morto non ero con lui. Non potei tornare nemmeno al suo funerale. Questa poesia l’ho scritta per lui, si intitola “Flowers are not enough”.

Flowers are not enough

In my mind’s eye, I saw us.
Walking down the narrow part to our
childhood paradise;
The garden, behind the house where we were
born and suckled by mother.
Your innocent fingers in mine like tendrils
over a young tree branch.
Together we climbed the small hill, that
overlooked the house, like an unpaid guard.
Were are you now, when I lost grip of your tiny hand?
I peeped down the valley but, you where not there.
I was not bold enough to bring flowers to
where I thought you lay; like a coward afraid of his shadow.
Just because, flowers are not enough for you.

(I fiori non bastano: Nell’occhio della mia mente ci ho visti/mentre camminavano per il sentiero verso il nostro paradiso infantile;/il giardino, dietro la casa dove siamo nati e siamo stati allattati da nostra madre./Le tue dita innocenti tra le mie come viticci su un ramo./Insieme abbiamo salito le piccola collina che/svettava sulla casa, come una guardia gratuita./Dove sei adesso, quando mi è scivolata via la tua mano? Ho guardato nella valle, ma non c’eri./Non ho avuto abbastanza coraggio per portari i fiori/dove pensavo tu giacessi; come un codardo timoroso della propria ombra./Solo perché, per te i fiori non bastano)

«Ora sono senza lavoro. Giro per Ravenna passando da un ufficio all’altro a lasciare curriculum. Svegliarsi il lunedì mattina e non sapere dove andare è una cosa terribile. Vago come uno spettro, senza meta, senza essere visto. Il mio sogno è tornare a insegnare, insegnare inglese, leggere ai ragazzi Shakespeare e Nadine Gordimer».

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