sabato
13 Dicembre 2025

Come scrivevano i grandi scrittori

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“Da giovane avrei potuto diventare un medico o una agricoltrice, ma divenni una scrittrice a causa della frustrazione, come avviene a molti” dice Doris Lessing una decina d’anni prima di vincere il Nobel. Chissà se dopo la sua frustrazione scomparve. Nel “Dizionario del grafomane” (Sellerio) Antonio Castronuovo raccoglie storie di scrittori compulsivi, che hanno scritto tutta la vita, che hanno scritto troppo, che hanno scritto con l’angoscia di non riuscire a creare qualcosa di memorabile. Tra queste Louisa May Alcott, autrice di “Piccole donne”, che a furia di scrivere non riusciva più a chiudere la penna nella mano destra e fu costretta a imparare a scrivere con la sinistra.

Troviamo la storia di Plutarco, l’autore di cui ci rimangono più opere dell’antichità, una settantina di libri, degli oltre 250 che scrisse in vita, e che ha un destino bizzarro. Fu infatti autore di biografie, le sue famose “Vite parallele”, ma non scrisse mai nemmeno una riga su di sé, e di lui sappiamo oggi ben poco.

Gli scrittori non possono non scrivere, e quando non hanno a mezzo qualche romanzo o dei racconti, sfociano in altre forme la loro ossessione. Questo è il caso di H. P. Lovecraft, il fondatore del racconto dell’orrore dei primi del ‘900, che arrivava a scrivere fino a 15 lettere al giorno. Oggi il suo corpus epistolario ne conta 120.000.

C’è chi per scrivere si adatta a tutto, come Mellville che scriveva appoggiandosi alle botti sulle navi, mentre il mare ondeggiava sotto la sua penna. Oppure Raymond Carver che, avendo in casa troppo rumore per i figli iper attivi, si nascondeva a scrivere in garage.

Gli scrittori sono vittima delle loro routine, che diventano anche quelle delle ossessioni. Cormac McCarthy, seppure sia scomparso solo due anni fa, ha scritto tutta la vita a macchina, una Olivetti che comprò da un amico quando era ragazzo e che pagò 11 dollari. Il ticchettio dei tasti, diceva, gli dava il ritmo per i dialoghi. Altri come Lewis Carroll di “Alice nel paese delle meraviglie”, preferiva scrivere in piedi, e si era fabbricato una scrivania altissima. Kafka scriveva di notte, quando la stanchezza stava per sopraffarlo e riteneva di poter essere più autentico.

A dare inizio a tutto fu Enheduanna sacerdotessa sumera del dio della luna, compose e incise un poema di 153 versi incisi sull’argilla sulla cacciata da Ur, e, con grande consapevolezza della sua originalità, scrisse “Ho dato vita, o amata Dea, a questa canzone per te. Quanto ho recitato per te a mezzanotte il cantore lo può ripetere a mezzogiorno” sottointendendo che ora che era scritta si poteva leggere più e più volte. E si firmò: “Chi ha scritto questa tavoletta è Enheduanna. O mia Signora, quanto è stato qui creato non è mai stato creato prima”. Forse non avrebbe immaginato che la sua opera poetica sarebbe sopravvissuta più di 4300 anni.

Chiudo il rapido excursus con una nota curiosa: lo psicanalista Edmund Bergler nel suo saggio “La letteratura come nevrosi” del 1949 diceva che gli scrittori sono persone che hanno una nevrosi e trovano nella scrittura una auto-terapia. Non vedo errori.

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