Non si sa bene quale città abbia visto Cecil Headlam, saggista e storico inglese, nel momento in cui descrive Ravenna. Quando nel 1908 pubblica le sue memorie di viaggio in Italia dal titolo “Venezia and Northern Italy”, indugia, come tanti altri autori, nello stereotipo della città decadente e isolata, la “dolce morta”, e non se ne discosta minimamente: «arriviamo dove dorme Ravenna, una città fossile immersa nelle sabbie del tempo, una mummia del quinto secolo con il volto rivolto verso l’immemore oriente. Ravenna sta come è stata molti anni (Inf., XXVII). […] E la città conduce, dormiente, un’esistenza placida e regolare, una tomba vivente di morti importanti, spesso immersi nella caratteristica nebbia e foschia, simili alla mezza luce degli Inferi e pervase da un misterioso silenzio sussurrante, dal suono e dall’odore delle foglie morte in autunno; dorme, un mausoleo di splendori passati e memorie regali. Mura della città in rovina e mal conservate circondando palazzi decadenti. Tutta la grandezza della «Roma del basso impero» è sfumata. I pavimenti delle chiese sono bagnati da acque putrescenti; le colonne di marmo sono macchiate dagli strani e magnifici colori della decadenza. Ma le tombe di Teodorico e Galla Placidia sono quasi intatte e, sui muri splendenti di San Vitale, Giustiniano e Teodora ancora conducono la propria corte. Ravenna è la Pompei dell’epoca Bizantina. […] Più bizantina della stessa Costantinopoli, Ravenna […] è la città di Giustiniano e degli Esarchi».
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