Nel 1910 don Sante Ghigi, sacerdote della chiesa ravennate, dava alle stampe per l’Istituto italiano d’arti grafiche di Bergamo un libro intitolato «Il Mausoleo di Galla Placidia in Ravenna (secolo V)» nel quale descriveva il celebre monumento. Il primo capitolo era incentrato sul tema della sepoltura, dunque venivano presi in esame i sarcofagi custoditi all’interno dell’antico sacello, mentre il secondo capitolo era dedicato alla descrizione degli straordinari mosaici: «Questo musaico, se bene lo guardiamo e studiamo, ci riempie di viva maraviglia e l’animo ci trasporta ad alti ideali. Abbagliati dallo splendore del colorito e dalla magnificenza dell’assieme, non dobbiamo fermarci a queste che sono qualità esteriori; ma approfondire l’occhio della mente per comprendere il senso mistico ivi esposto, che dal visibile conduce al sovrasensibile mediante il simbolo, che […] è la midolla dell’arte cristiana. In quelle decorazioni, in quelle immagini, in quei simboli si nasconde una sapienza superlativa, che per mezzo dell’arte porta lo spirito al sublime, all’infinito, al Cielo. Persuadiamoci che nell’arte cristiana dei primitivi secoli nulla vi ha di ozioso, nulla di superfluo. Purtroppo non pochi dei nostri archeologi moderni, per quanto mi è noto, non fecero che studii superficiali su questo genere di pittura sacra, e quindi l’ermeneutica dei nostri musaici lungi dal progredire è in regresso: regna la confusione di discordi pareri, che la verità oscurano piuttostochè esporla».
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