Seguendo l’esempio dello storico Arnaldo Momigliano che affermava che se si voleva capire la storia d’Italia bisognava prendere un treno a venire a Ravenna, ogni anno molti turisti arrivano nella città degli esarchi per ammirare quegli antichi monumenti celebri in tutto il mondo. Da qualche anno, ad “accoglierli” nel sottopassaggio della Stazione ferroviaria, posto in una grande teca, è uno scheletro adagiato in un’anfora, una visione che fa tornare alla mente i commenti di quei viaggiatori d’altri tempi, di quei turisti ante litteram, che avevano definito Ravenna una città… morta. Giuseppe Roverelli aveva intitolato un suo libro proprio così: «Ravenna la dolce morta», mentre Alfred Driou affermava che a Ravenna «si muore di consunzione» e si diceva felice di lasciare questa «città morta la cui influenza vi trasforma inesorabilmente in mummie». Non meno gentili erano le dichiarazioni di Jules Claretie quando scriveva che «Ravenna è una delusione. Non è solo la morte, è la mummificazione». Ferdinand Gregorovius, decisamente con più stile, la definiva «la Pompei dell’epoca gotica e bizantina». Ma oggi come allora, questi commenti non vanno ascoltati, secondo l’esempio di Santi Muratori: «Tutti l’hanno immersa in una luce strana, crepuscolare. Noi che vi nascemmo e viviamo […] noi la sentiamo, Ravenna, con una più intima e sottile vibrazione d’amore, e con una sempre più accesa curiosità ne indaghiamo il segreto». I turisti più accorti, questo intimo segreto sapranno scoprirlo.
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