American hardcore, un movimento “contro”, fra underground musicale e protesta sociale

Qualche tempo fa mi è giunto in dono il superbo dvd American hardcore - La storia del punk americano 1980-1986, realizzato dal regista Paul Rachman basandosi sul libro di Steven Blush American Punk Hardcore. Il film vero e proprio - circa un’ora e quaranta - racconta tramite una messe incredibile di filmati inediti (soprattutto di live) e interviste (vecchie e nuove) ai protagonisti stessi la nascita e l’esplosione irrefrenabile di un movimento inaspettato e del tutto autonomo, “do it yourself”, che nel giro di pochi mesi tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980 si trasformò per più di un lustro, oltre che nel nuovo underground musicale statunitense, in una durissima forma di protesta sociale contro la presidenza Reagan.

Black Flag, Minor Threat, DOA, Murphy’s Law, Youth Brigade, Bad Brains, Circle Jerks, Suicidal Tendencies, Agnostic Front, Negative Approach e tutti gli altri gruppi del periodo - senza i quali non ci sarebbero mai state band come Nirvana o Beastie Boys - non sono solo un modo di fare musica, ma un vero stile di vita, una specie di movimento politico a cui si poteva aderire solo buttandocisi dentro totalmente. Reagan voleva riportare gli States agli anni ’50 e molti giovani captavano la sua falsità, la detestavano. Sentivano che qualcosa non andava e che il punk rock era la strada per uscirne fuori, il modo per dar vita a una controcultura stridente e assolutamente inaccettabile da qualsiasi forma di mainstream. E il documentario ti fionda proprio nel cuore di questo movimento, attraverso tutti gli Stati Uniti, mostrando le differenze da stato a stato e la stessa incontenibile energia e aggressività. L’hardcore, a detta stessa degli intervistati, arrivò come una meteora, dal nulla, sconvolgendo l’ordine esistente. L’odio prende forma in testi dal carattere minimalista e si scaglia contro il paradigmatico modello americano: una casa, una moglie, un buon lavoro, dei figli e un garage con due posti macchina. E così, di colpo, vediamo dimenarsi un giovanissimo Ian MacKaye (Minor Threat, Fugazi, fondatore poi della Dischord), impegnato a cantare Seeding Red, e poi intervistato sul tema della droga, elemento predominante nell’iniziale scena punk rock. Ma ci troviamo tutti: Henry Rollins, ovviamente, Dean e Mullin dei COC, Spira dei Wasted Youth, Jimmy Gestapo, gli Adolescents, H.R., gli SSD e avanti così, con un risultato che è un assalto violento di immagini e musica e che cattura lo spirito dei gruppi e di un movimento che sputa sopra i politici, le case discografiche e tutto ciò che intralcia loro il cammino. Il film però va oltre un genuino racconto della scena hardcore fatto dai protagonisti stessi, diventando un resoconto completo della sottocultura americana e spiegando, 25 anni dopo, quanto siano cambiate le cose. L’energia della musica, i filmati d’archivio e le storie vere dei vari gruppi sono importantissimi per far comprendere l’hardcore a chi dell’hardcore non ha mai fatto parte, ed è in questo aspetto, nella sua purezza, nel suo distacco, che il film si rivela uno strumento formidabile nell’illustrare la scena non solo ai fan vecchi e nuovi, ma anche ai semplici curiosi. «L’ho tenuta imbottigliata dentro per anni, invece di lottare o di piangere. Adesso è tempo di lasciarla uscire, il mio punto d’ebollizione sta per arrivare» - SSD.

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