di Matteo Cavezzali
Lord George Gordon Byron è uno di quei poeti il cui personaggio ha oggi maggior fama della sua opera. Nonostante sia considerato dai libri di letteratura inglese uno dei massimi poeti britannici ormai è difficile trovare qualcuno che abbia letto le sue opere. Eppure la nomea di Lord Byron, eroe romantico morto durante la guerra d’indipendenza della Grecia dall’Impero Ottomano, rivoluzionario, poeta e donnaiolo impunito, è giunta integra fino ai giorni nostri.
Quest’anno sono tornati, in una nuova edizione Adelphi curata da Ottavio Fatica, i diari di Byron, pubblicati con il titolo Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno. Byron vive a Ravenna dal 1819 al 1821 e soggiorna nel Palazzo del conte Guiccioli in via Cavour (dove presto sorgerà un museo dedicato al poeta). I diari sono interessanti per scoprire la vita nella Ravenna di duecento anni fa. Ci descrive un clima impietoso, freddo e «un umido tremendo che ristagna», che riconosciamo bene. Le strade di terra, con la pioggia e la neve, diventano pozze di fango in cui è impossibile muoversi a cavallo. È una città pericolosa, in cui è facile imbattersi in una sparatoria per motivi politici o essere pugnalati per qualche denaro. Il poeta passa le giornate a leggere libri, giornali, ad attendere i passionali incontri con l’amata Teresa Guiccioli.
In quegli anni Byron ha 33 anni, lei 22. Il Lord è malinconico – «preferisco star solo che in compagnia» – e anche ubriacarsi con il laudano non gli da più la stessa spensieratezza di un tempo, ma anzi aumenta la sua cupezza. Gli alcolici sono scadenti, a Ravenna chiamano cognac quello che è solo vino mescolato ad altre sostanze colorate, sentenzia, «perciò ho preparato io una miscela di distillati che ora mi accingo a tracannare».
Byron aspetta la rivoluzione, il momento in cui i carbonari si ribelleranno al Papa, per unirsi a loro, ma questo non accade mai. Guarda i compagni di insurrezione con un po’ con diffidenza e teme che saranno efficaci in battaglia «come un fucile dalla punta storta». Si sbaglia di poco visto che i moti del 1821 finiranno miseramente. Incontra spesso Pietro Gamba, fratello di Teresa, e insieme sognano la rivoluzione, si procurano armi con cui hanno ormai riempito la cantina, pianificano attacchi e studiano tattiche di guerra, poi il discorso vira su nuovi abiti alla moda appena arrivati. Cena all’inglese con pudding preparato dai suoi sette domestici scesi con lui dalla Gran Bretagna, e cura gli animali bizzarri che ha portato con sé: alcuni gatti, un corvo zoppo, un falco e anche delle scimmie, che tiene al piano terra perché al piano nobile «soffrono il freddo».
Dal diario ravennate Byron emerge come un tipo stravagante, singolare, molto colto ma anche un po’ cialtrone. Alterna pagine liriche a ragionamenti legati al suo tempo, che oggi suonano datati. Delle donne dice che non dovrebbero leggere di poesia o politica, ma manuali di cucina. Ci sono però anche pagine come questa: «L’infinita varietà della vita non fa che condurre alla morte e l’infinità dei desideri non fa che mandare incontro a delusioni. Tutte le scoperte fino a qui fatte hanno accresciuto tutt’al più l’esistenza. Una malattia estirpata è seguita da una nuova pestilenza. La scoperta di un nuovo mondo poco ha apportato al vecchio».
Chi era dunque Byron? Poeta rivoluzionario o eccentrico mascalzone? Probabilmente entrambe le cose.