“Docile”, spettacolo che denuncia – a vuoto e irrisolto – il vuoto indolente del precariato

Consuelo Battiston 3

Consuelo Battiston (foto Tania Zoffoli)

Esperimento curioso, questo Docile. Uno spettacolo che cerca di raccontare con la leggerezza della favola una condizione socio-politica tragica come quella della precarietà esistenziale e lavorativa.

Al centro della drammaturgia dei Menoventi – che come tutti gli esperimenti sinceri, ora s’inceppa, ora apre visioni originali – la vita di Linda Barbiani. Linda è una precaria modello dei nostri tempi: isolata, priva di strumenti cognitivi per comprendere le ragioni politiche del suo stato (un leitmotiv del personaggio, durante le chiamate registrate alla madre, è il vittimistico e quasi fantozziano «non ne faccio una giusta»), incapace di immaginarsi un’esistenza alternativa, prigioniera del suo ambiente e della sua educazione. Per usare le parole della “lotteria della nascita” (concetto della sociologia americana e scena che apre lo spettacolo), Linda «non ha segni particolari».

Consuelo Battison dà vita a questo essere anodino, quasi traslucido, dalla dizione impastata di dialetto e dalla figura esile e filiforme, sempre sul punto di crollare; bovino nell’accettazione passiva della sua condizione; più che anti-eroico, a-eroico (nella stessa accezione di apolitico).

Il meccanismo narrativo si mette in moto quando l’ufficio di collocamento consiglia a Linda di frequentare le lezioni di self empowerment tenute da uno psicologo, Guglielmo Buonora, interpretato da Andrea Argentieri. Confusa fra il pubblico, Linda ascolta la concione motivazionale di questo professore – figura chiaroscurale, fra Mefistofele e televendita – che consiglia alla platea di adottare banalità volontaristiche come «dire “potere” invece di “dovere”» per trovare un lavoro. In breve, lo psicologo ci incita a riprendere il controllo delle nostre vite contro la fatalità del caso, ma senza offrire ai suoi uditori strumenti cognitivi appropriati per comprendersi, ovvero gramscianamente per capire il proprio ruolo nella società e nel mondo.

Andrea Argentieri

Andrea Argentieri (foto Tania Zoffoli)

Il seme del riscatto sociale è stato piantato. Il dolce sonno della subalternità è rotto, Linda comincia a risvegliarsi e, com’è prevedibile, a soffrire. La realtà che l’aspetta non asseconda i suoi desideri. Non basta dire “posso” per trovare un lavoro dignitoso o un principe azzurro. Il self empowerment si mostra per quel che è: un metodo “scientifico” per passare dalla remissività alla frustrazione, l’illusione che ci fa credere che il nostro egoismo sia in grado di cambiare la realtà.
Il dolore di Linda si concretizza favolisticamente in un uovo d’oro che porta in seno. Anche lei è un prodotto d’allevamento, come le galline che cresceva suo padre. Anche lei viene usata, alla stregua di un animale, per far fruttare qualche soldo all’allevatore (sia esso uno psicologo oppure un medico, figura non molto riuscita che concretamente le estrae per la prima volta l’uovo d’oro dal grembo, deciso a tenerlo tutto per sé per truffaldini “esami istologici”).

Probabile simbolo hillmaniano della propria forza interiore, Linda alla fine si terrà il suo uovo d’oro, e uscirà di scena silenziosamente, come ne era entrata. La favola è irrisolta: Linda troverà il modo di usare il suo potere, o continuerà a farsi rubare le uova? Non sappiamo se questa creatura, «povera di fatto e borghese nel cuore», uscita direttamente dalle pagine di Don Milani, troverà gli strumenti per emanciparsi dalla docilità.
Ciò che invece conosciamo bene è la sua solitudine, la sua totale assenza di legami, affetti, amicizie. Questa solitudine, questo abituarsi al vuoto, accomuna tristemente tutti i precari di questi anni, che sembrano ancora incapaci di legarsi gli uni agli altri e di riconoscersi fra loro come classe per le stesse condizioni d’esistenza e per gli stessi bisogni.

La regìa di Gianni Farina si concentra intelligentemente attorno a questo vuoto, e lo dispiega con coerenza nello spazio. Ogni scelta è compiuta in omaggio al vuoto esistenziale: musiche minimaliste (Reich, Riley, sinfonie aleatorie, gracidii digitali), luci finissime e fredde, spesso caravaggesche nella loro finzione; dialoghi lenti e rarefatti, personaggi che si stagliano nel buio assoluto. Il ritmo lento dello spettacolo si increspa solo nei momenti di inclusione del pubblico, ora partecipante del corso di self empowerment, ora giocatore in una sala bingo, con tanto di cartella rosa coi numeri distribuita all’entrata dalle maschere.

Lo spettacolo dei Menoventi ha il pregio assoluto di volersi misurare con un tema difficile, non tanto per la sua attualità, ma quanto piuttosto per la mancanza di appigli narrativi forti. Il problema del precariato degli anni ’10, così privo di pathos neorealista e di tinte forti politiche, è la sua refrattarietà alla narrazione: annoia, non è fotogenico. La morte delle ideologie politiche e l’immobilismo appunto docile che caratterizza questa classe di nuovi poveri, fanno sì che la sua traduzione in scena fatichi ad essere convincente e a sviluppare empatia.

Consuelo Battiston

Consuelo Battiston (foto Tania Zoffoli)

È difficile appassionarsi alla vita mediocrissima di Linda, alla sua totale assenza di combattività; allo stesso tempo, le manca quella sofferenza fisica, reale, che cent’anni fa rendeva affascinante e inaccettabile la vita degli sfruttati. Questo vuoto, che purtroppo riflette un vuoto reale, respinge il pubblico, lo allontana da Linda e dalla sua debolezza. Inoltre, proprio perché sceglie la forma della favola contemporanea, Docile non offre alcuna interpretazione utilizzabile del precariato e lascia le sue cause irrisolte. Lo include nella narrazione come una sorta di a priori  fatale e immutabile, sotto forma del tabellone digitale, occhio esterno sempre presente, che apre e chiude lo spettacolo.

Ora, non si tratta affatto di offrire soluzioni politiche già pronte per il pubblico, ma più semplicemente di inquadrare il problema da una prospettiva più matura.
In altre parole: la lotteria della nascita non spiega un bel niente. Il problema del precariato non è frutto del caso, di una nascita sfigata, ma di un paradigma economico applicato scientificamente. Forse per una scelta consapevole, in questa favola senza morale non c’è traccia di una riflessione sulle origini e sulle cause profonde (si legga “sociali”) del disagio di Linda. Come in un racconto kafkiano, è lei stessa ad essere colpevole, non si sa perché, della sua infelicità: per la sua origine sociale, per la sua remissività, per la sua incapacità di auto-affermarsi.

Non basta un corso di self empowerment per sviluppare un’emancipazione personale. Possiamo scommettere che Linda, anche dopo lo spettacolo, continuerà a farsi fregare le sue uova d’oro, perché è intimamente convinta della propria colpa, persuasa che gli ostacoli veri «se li porti dentro», come scrivono i Menoventi nelle note di regìa. Paradossalmente, questa è un’interpretazione che forse piacerebbe a certi liberalisti.

 

Docile

con Consuelo Battistone Andrea Argentieri

regia, suono, luci Gianni Farina

immagine Marco Smacchia

produzione Menoventi/E-production

Visto al Rasi il 26 ottobre 2019

 

 

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