Con l’irruzione del “diverso”, la nudità dell’autentico in “Hamlet Solo” di Lenz Fondazione

Hamlet Solo Lenz Fondazione

Barbara Voghera in “Hamlet Solo” (foto Francesco Pititto)

«Viviamo in un tempo in cui l’uomo non perde mai di vista ciò che è, in cui la semplicità stessa è voluta e l’ebbrezza dionisiaca fittizia come l’arte che la esprime, arte di cui l’artista è troppo consapevole e compiaciuto di esserlo. In una simile epoca è forse la follia la condizione di ogni autenticità?»
Era il 1922 e così si interrogava Jaspers, filosofo e psichiatra, nel suo seminale Genio e follia. Parole che condensavano in poche righe il lungo flirt fra arte e diversità, formulato per la prima volta chiaramente alla fine del secolo precedente – ricordiamo almeno il dérèglement di Rimbaud – ma che affonda le sue radici nella notte dei tempi.
Per la vulgata decadente e simbolista, quell’autenticità faticosamente sudata dall’artista “normale” (la famosa sprezzatura) sarebbe innata nella persona “diversa”. La qualità ipnotica delle loro voci e dei loro corpi, allo stesso tempo fragili e potenti, comici e inquietanti, attesterebbe questa urgenza – questa “nudità”, per usare forse il termine che meglio di ogni altro riassume la questione.

Perché è la “nudità” di questa performance a stupire, la capacità di dire tutto una volta per tutte. Barbara Voghera, attrice con sindrome di Down, sul palco libera il senso profondo del testo shakespeariano. Lo fa sgranando le parole, forzandole, dando loro carne con una gestualità fortissima, che spazza via la patina rugginosa delle migliaia e migliaia di “grandi interpretazioni” con cui è stato torturato questo testo.
Se questa forza sia dovuta alla grazia di un talento innato o non piuttosto al frutto di un lungo processo di apprendistato (come sospetto, con buona pace di Jaspers), adesso non ci importa. Ciò che ci importa è capire più da vicino questo Hamlet Solo dei parmigiani di Lenz Fondazione, gruppo da anni impegnato in laboratori teatrali con i “diversi”: portatori di handicap e disagio mentale.

Hamlet Solo Lenz Fondazione 5Lo spettacolo è il precipitato di un progetto attorno a Shakespeare che inizia nel lontano 1999. La Voghera è sola sul palco, unica protagonista di un monologo che tiene al suo centro la questione della follia, affastellando diverse scene dell’Amleto senza la pretesa di tracciarne un racconto logico. Sarebbe illogico farlo, d’altronde.
Alle sue spalle, proiettati per tutta l’ampiezza della quinta, video in bianco e nero, nei quali compaiono ex pazienti del manicomio di Colorno, che a loro volta interpretano personaggi chiave del dramma: il Fantasma del Padre, la Regina, Claudio l’usurpatore. Visi pregnanti, scavati, “sbagliati”, capaci con uno sguardo di bucare lo schermo e parlare a ciascuno degli spettatori, illuminati da luci taglienti che potrebbero ricordare quelle di alcuni lavori di Ciprì e Maresco. Sono voci spezzate e dolenti, che rompono la drammaturgia shakespeariana in una verbigerazione sommessa, piena di ripetizioni, oscenità, solecismi.

Ad emergere è così l’abuso di un dolore insensato, la consapevolezza di esistere in una terra marcia fino al midollo, dentro un corpo imperfetto fatto di “carne, sperma e merda”. Con vertigini quasi testoriane, il nucleo profondo dell’Amleto si svela in tutta la sua forza: lo scandalo dell’incesto indissolubile fra vita e sofferenza.
Emozionano profondamente alcuni frammenti del video, alcune parole scappate al flusso continuo di questi fantasmi: «Non so cosa c’è dentro di me», ammette la Regina, svelando una sofferenza che tiene assieme testo e autobiografia.

In alcuni momenti questo Hamlet Solo mi ha ricordato le stesse atmosfere inquietanti, lo stesso indagare feroce in quello spazio liminare fra commedia e tragedia di Sinfonia Beckettiana, lavoro firmato da Nerval Teatro. Sebbene si trattasse di Beckett – che ben più di Shakespeare si presta ad una destrutturazione del linguaggio – anche nell’opera di Lupinelli gli attori erano uomini e donne portatori di handicap cognitivi. L’emozione provata a vedere quella verità portata in scena è del tutto analoga a quella cercata dai Lenz.
Se Lupinelli si affidava soprattutto all’accostamento di musica dal vivo e lunghi momenti di silenzio, la regìa di questo Hamlet Solo, firmata da Maria Federica Maestri, immerge l’intero monologo in un flusso ininterrotto di immagini e musica. Probabilmente avrebbe giovato alla fruizione qualche momento di silenzio, per godere al meglio di queste voci così fragili. La musica, composta da Andrea Azzali, è di per sé godibilissima; tuttavia il suo uso pervasivo finisce per sembrare un elemento puramente estetizzante. Qualcosa di inessenziale, che vuole arricchire ciò che non ha bisogno di arricchimento – o, se vogliamo, un trucco per un volto che non ha bisogno di belletto.

Funziona bene invece la riscrittura di Francesco Pititto, che riesce a reinterpretare l’ardua lingua del Bardo senza depotenziarla e adattandola alla voce della Voghera. Valga su tutti questo esempio, pescato fra tanti altri possibili. Nel suo monologo immortale Amleto riflette sulla sua abulia intellettualistica: «Thus conscience does make cowards of us all»; qui, il verso diventa un perfetto e autobiografico «E così la coscienza ci fa a pezzettini, caro mio».

 

Hamlet Solo
da Hamlet di William Shakespeare
Creazione: Francesco Pititto, Maria Federica Maestri
Traduzione, drammaturgia e imagoturgia: Francesco Pititto
Regia, installazione, costumi: Maria Federica Maestri
Musica: Andrea Azzali (Monophon)
Performer: Barbara Voghera
Attori in video: Liliana Bertè, Franck Berzieri, Guglielmo Gazzelli, Paolo Maccini, Vincenzo Salemi, Elena Varoli.
Luci: Nicolò Fornasini

Visto al teatro Comunale di Russi il 29 novembre 2018

Sotto alcune foto dello spettacolo di Francesco Pititto

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