«Studiare e conoscere la storia è l’unico modo per guardare avanti. Oggi dopo tanti anni dovremmo aver costruito una visione in cui identificarci tutti, invece non è ancora così». Lo storico Gianni Oliva ha sintetizzato così, qualche mese fa, il rapporto che gli italiani hanno con la mancata elaborazione delle responsabilità della Seconda guerra mondiale, la resistenza, i crimini e le stragi, le vendette. Eppure, attraverso alcuni scrittori, sarebbe possibile affrontare quei temi; da qualche tempo, oltre ai saggi, si sono infatti moltiplicati i romanzi ambientati fra gli anni Trenta e i Cinquanta. Di alcuni si poteva fare a meno, nonostante tutto. I giorni di Vetro di Nicoletta Verna (Einaudi Stile Libero), invece, è indimenticabile, con una struttura narrativa da grande romanzo del Novecento e una scrittura perfetta, che cambia strada facendo, per adattarsi all’anima delle due protagoniste.
Una storia violenta, che richiama la linea di sangue che scorre ancora oggi, e insieme un omaggio al coraggio di donne che riescono a tenere la propria vita fra le mani, costi quel che costi, nonostante la perenne prevaricazione maschile. La prima protagonista, Redenta, nasce a Castrocaro il giorno dell’assassinio di Matteotti; è “scarognata” (il romagnolo italianizzato di Verna è musicale ed efficace) e, non bastasse, si ammala di poliomielite che la rende zoppa. Lei reagisce non parlando per anni, fino a quando sboccia l’amicizia con Bruno, poco più grande di lei.
Arriva il fascismo, i reduci dalla campagna d’Abissinia, come il padre; ma soprattutto come il fascista “Vetro”, bellissimo e capace di qualsiasi crudeltà (conserva la testa imbalsamata di una ragazza africana, che ha decapitato). Nello stesso giorno di Redenta, nasce anche, a Tavolicci, Iris: figlia di un’insegnate e anche lei maestra; poi partigiana, vicina al comandate Diaz. Le pagine della storia senza maiuscola ricordano la parabola del fascismo, fino all’8 settembre e alla lotta della Resistenza, che Nicoletta Verna analizza e racconta senza retorica e con dolore, quasi fosse stata anche lei sull’Appenino romagnolo, fra casolari, fucili, esplosivi e paura.
La vita delle due giovani donne si incrocia, pare separarle, poi una salva l’altra e viceversa. Perché c’è bisogno di non morire, certo, ma di vivere, non di sopravvivere. L’autrice scrive, nelle note: «In questo romanzo non c’è niente di vero, eppure non c’è niente di falso». La sua è una ricostruzione dell’essenza delle cose. Memorabile, appunto.