Chi sa fa, chi non sa insegna. Almeno così dice il detto. Però a volte chi insegna impara di più di chi fa e chi fa non sempre sa quanto crede di sapere. Questo potrebbe essere la circostanza di diverse realtà e anche in ambito musicale accade, talvolta, che insegnare sia più rivelatorio che studiare. Non sempre, per carità, ma in certe occasioni ciò si manifesta chiaro. È questo il caso occorso durante una lezione sul teatro mozartiano in seno a una classe di una scuola media della provincia ravennate. L’insegnante, dopo breve indagine, mostra un interessante esempio di aria, tratta dalle Nozze. La Cherubino di turno si prodiga in un’esecuzione magistrale, impreziosita da tutte quelle licenze che la prassi esecutiva dell’epoca prevedeva e contemplava al fine di consegnare alle orecchie degli ascoltatori un’aria diversamente uguale e costantemente interessante. Al termine dell’ascolto una giovane studentessa, timidamente, esprime una semplice domanda che manifesta il dubbio di una fetta generosa di tutto il pubblico operistico: che senso hanno quei costumi con la vicenda, non sono di un’altra epoca?
Lo strappo nel cielo di carta di pirandelliana memoria. In un batter d’occhio tutto il revisionismo registico basato sull’attualizzare le vicende operistiche per rende più attuali annichilisce di fronte a una semplice domanda di una tredicenne curiosa che non si spiega perché il «diritto feudale» (alias lo ius primae noctis) debba essere applicato in un’epoca storica nella quale i protagonisti dell’Ancien Régime sono ormai scomparsi.
Il tradimento degli allestimenti moderni nei confronti dell’opera d’arte, così privato dell’ultima giustificazione contro la quale non si voleva sentir ragione, ormai è manifesto.
Attualizzare, modernizzare, rendere fresco agli occhi del pubblico più giovane e meno formato è, dunque, un vero e proprio fallimento. L’opera d’arte reclama a viva forza la propria dignità nel suo specifico contesto e lo fa per bocca di coloro che, per definizione, sono gli innocenti, non profanati da ideologie artistiche che talebanamente vengono difese da presunti guru della messa in scena.
Ciò da voce anche a un’eco secondaria che, però, risuona netta: è giunto il momento di riportare al centro della rappresentazione l’esecuzione musicale, esautorando finalmente il potere che i registi si sono arrogati sempre più e riconsegnandolo agli unici veri responsabili della buona riuscita dell’esibizione, i musicisti.
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