Duecento anni fa Beethoven realizzava la geniale Nona

7 maggio 1824. Sono passati esattamente duecento anni da questa data, marchiata a fuoco nella Storia della Musica. Era il Theater am Kärntnertor, il teatro di porta Carinzia, luogo viennese tra i più prestigiosi che, prima di esser demolito per lasciar spazio al celeberrimo Hotel Sacher, vide la prima esecuzione di importanti melodie. Beethoven, infatti, fece rappresentare nel 1814 la sua unica opera, il Fidelio, su quel palco, ma nella data in questione fu un’altra composizione del musicista tedesco a vedere la luce su quelle assi: la Nona.

Dire che questa sinfonia sia importante è sminuirla. Ci sono troppe cose che le permettono di travalicare l’ordinario e dilagare nello straordinario, a partire dalla sordità totale del compositore che, in barba a questo “piccolo” inconveniente ha instillato nell’opera tutto il suo ingegno e il suo genio.

In secondo luogo, ci sono due novità strutturali non di poco conto. La prima è quell’inversione che Beethoven aveva già sperimentato in altri lavori cameristici, ma mai nelle sinfonie (solamente abbozzata nell’Ottava): l’inversione tra lo Scherzo, posto come secondo movimento, e l’Adagio, in terza posizione. La seconda, invece, è davvero una novità assoluta, l’introduzione all’interno di una composizione prettamente orchestrale, qual è la sinfonia classica, di una componente vocale (e che componente!) in questo caso costituita sia da quattro solisti (soprano, mezzosoprano, tenore e baritono) sia da un coro a quattro voci dispari.

Non ci aveva mai pensato nessuno. Nacque così quella che Berlioz definì nel 1858 come Sinfonia corale. Da Beethoven in avanti questo tipo di composizione fece valere il suo fascino su molti musicisti che continuarono a proporre anche questa declinazione della sinfonia.

Non si esaurisce, quindi, nelle note la creazione di questi brani, ma è indispensabile anche un testo che sia di supporto e ispirazione alla musica. Anche per questo Beethoven non fu banale, ma dimostrò la sua inclinazione al Romanticismo scegliendo i versi del celebre inno An die Freude scritto pochi anni prima dal drammaturgo tedesco Friedrich Schiller nel quale il messaggio per nulla celato è la fratellanza universale («Alle Menschen werden Brüder»).
Dopo duecento anni, il desiderio schilleriano che Beethoven ha voluto rendere immortale con la sua musica non è ancora stato esaudito. Potrà la forza dell’arte aiutare l’umanità a compiere questo passo?

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