La stella della tastiera Jin Ju: una perfezione tecnica non sempre espressiva

Jin Ju PianistaAscoltare musica dal vivo è un’esperienza davvero unica perché è una delle circostanze che, più di altre che ci impegnano nel quotidiano, ci permette di esercitare un certo tipo di pensiero critico. In particolare, ci sono concerti che, per loro genesi, offrono questa possibilità.
Alcuni giorni fa, al teatro Alighieri di Ravenna, nella cornice della rassegna “Ravenna Musica” curata dall’associazione Angelo Mariani, si sarebbe dovuto esibire il pianista Paolo Restani, tuttavia, causa un’indisposizione dell’ultimo minuto, è stata un’altra la stella della tastiera sul palco romagnolo: la cinese Jin Ju.
Proprio la presenza di questa valente e pluripremiata musicista ha dato modo al pubblico ravennate di capire con quali parametri si può valutare un musicista. Si può, e forse si deve, partire dalla cifra tecnica. Nel repertorio di questo concerto il “coefficiente tecnico di difficoltà” (se così si può chiamare) era decisamente alto: i brani in programma di Czerny, Schubert e Chopin sono certamente molto impegnativi dal punto di vista tecnico, alla luce del miliardo di note al secondo richiesto all’esecutore.

L’ingresso in scena della pianista è stato prodromo del concerto stesso, due facce della stessa medaglia: da un lato il passo timido e discreto nel calcare le assi del palco, dall’altro il vestito rosso rumoroso e fiammante. In apertura le Variazioni su un tema di Rode op. 33 di Carl Czerny, musicista ingiustamente sconosciuto a molti, ma che si colloca in pieno in quel periodo storico che vede Vienna nuova capitale della musica. Nonostante la tecnica adamantina profusa dalla bravissima interprete, però, il brano denuncia una lettura forse troppo votata a una pulizia avara di affetti ancora in voga al tempo del compositore, allievo, tra gli altri, di Salieri e Beethoven.

La velocità di esecuzione diventa, quindi, cifra stilistica della pianista nata a Shangai. In questa esecuzione c’è un senso di fretta che diventa manifesto negli abbellimenti, specialmente i gruppetti, e che porta a trascurare la valorizzazione delle varie sonorità. Proprio la Sonata in do minore D 958 di Franz Schubert diventa paradigma di questa inclinazione a causa della quale le ottave vivono solo di acuti e le sonorità più contraltili, per tacer di quelle ancor più gravi, si perdono ignavamente nel tessuto ricco dei brillanti acuti.

Nella seconda parte del concerto quello che è il punto di forza della pianista: Fryderyk Chopin. Impromptu op. 29, op 36, op. 51, Fantasie – Impromptu op. 66, Barcarola op. 60, Fantasie – Polonaise op. 61. Fin da subito la musicista appare decisamente più a suo agio anche se… I vecchi Maestri avrebbero detto: “non canta”. Questo telegrafismo è, forse, riduttivo, ma la mancanza di lirismo nell’esecuzione è palpabile. Non si sente, non abbastanza, quello che si può definire “suono sul fiato”, quella tensione fraseologica che i cantanti (e certo non solo loro) amministrano col sapiente uso del diaframma. Può essere che la nuova posizione del palco, dentro la sala, penalizzi in parte la percezione del timbro, tuttavia, avvicina il teatro a una sala da musica di un tempo e, quindi, aggiunge una cifra peculiare all’esibizione.

Malgrado i cellulari del pubblico, nei bis (Chopin op. 64 n. 1-3) la pianista ha sorpreso, invece, con una dinamica inaspettata, regalando dei pianissimi di assoluto spessore, uniti a un suono vellutatissimo della mano sinistra. Come quarto e ultimo bis un grazioso brano cinese inneggiante alla bellezza ha suggellato la serata ravennate.

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