E io dovrei ancora star qui a spiegare chi è Giovanni Succi?

Giovanni Succi

Giovanni Succi

La definizione post-rock viene usata per la prima volta da Simon Reynolds su Wire, intorno alla metà degli anni novanta, per descrivere una scena di gruppi a vario titolo definibili “rock” (Stereolab, Pram e non mi ricordo chi altri), ma per nulla assimilabili all’immaginario che la parola si porta dietro. È una definizione musicale: nel “post-rock” venivano usate strutture inconsuete, strumentazioni inconsuete, atteggiamenti in contraddizione con l’immaginario di riferimento.

Il maggior pregio (e il principale difetto) di Simon Reynolds è la sua capacità di argomentazione: la sua attitudine analitica e la capacità di coprire uno spettro cognitivo che per altri sarebbe impensabile fanno sì che alcune cose che scrive, e che sembrano intese essere spunti di analisi e poco più, diventino una realtà fattuale accettata da tutti. La sua impareggiabile capacità di trovare definizioni che rimangano in testa e non suonino offensive fa il resto. Il risultato è che all’inizio del 2000 la definizione “post-rock” era talmente assodata e condivisa da esser diventata un genere musicale vero e proprio, vale a dire l’esatto opposto di quello che “post-rock” significava in origine. Prima erano post-rock tutti quelli che non somigliavano a nessuno, poi erano diventati post-rock tutti quelli che somigliavano a Mogwai e Tortoise. E se da una parte è vero che ci sono gruppi molto peggiori a cui somigliare, dall’altra va detto che è possibile identificare tutta una sottocultura di band che a un certo punto, tra la fine dei ’90 e l’inizio dei 2000, smisero di ispirarsi a Litfiba e Diaframma e iniziarono a copiare i Tortoise. In alcuni casi si limitarono ad inserire elementi dei Tortoise nella loro musica ispirata ai Litfiba, anche. E io, in tutta franchezza, non ero pronto. Mi salvò la vita un’etichetta che si chiamava Wallace, fondata dalle parti di Milano da un tizio di nome Mirko Spino.

Come ogni buona etichetta post-rock, non c’entrava assolutamente nulla con il post-rock. Il logo dell’etichetta era la faccia di Marsellus Wallace, i dischi erano di gruppi che si chiamavano A Short Apnea, Bugo, RUNI, Bron Y Aur, Madrigali Magri. E anche se erano nomi che avevano iniziato a girare parecchio per riviste e quant’altro, Madrigali Magri mi faceva paura: non so se avete mai notato questa cosa, ma quasi tutti i gruppi il cui nome contiene un gioco di parole fanno schifo. Lessi qualche recensione del gruppo, erano tutte molto entusiaste, e tutte lo descrivevano come “post rock”. Il mio pregiudizio mi tenne lontano per un po’ di tempo, poi li sentii e mi innamorai.

I Madrigali Magri erano un trio piemontese, cantava un tale che si faceva chiamare Giambeppe Succi e -beh, non cantava. Sussurrava roba ultra-depressa al microfono, il gruppo ci metteva la musica – lui suonava anche la chitarra, ma non era proprio un vero e proprio suonare, diciamo che tiravano una schitarrata ogni tanto, tipo i Talk Talk dei dischi post-rock, per così dire. Era post-rock? Boh, sì, immagino di sì, però Malacarne era davvero un discone. Non proprio una cosa che potevi ascoltarti sulla strada per il Cocoricò, ma un discone.

Questi gruppi esistono all’interno di un tacito patto sociale secondo cui alle persone che li ascoltano è concesso di interessarsi a loro solo quando è strettamente necessario. Quindi quando non c’è un nuovo disco dei Madrigali Magri o un nuovo concerto dei Madrigali Magri, tendi a scordarti che i Madrigali Magri esistano. E francamente non li sentivo nominare da qualche tempo quando vidi una copertina inusuale su Blow Up, era la metà degli anni duemila – grossomodo, una roba così. In copertina c’era un gruppo che si chiamava Bachi da Pietra e pareva comporsi di due persone. Uno dei due era Bruno Dorella, e quello era già facile da riconoscere – l’altro non l’avevo mai visto. Non ci volle molto a scoprire, nell’articolo, che si trattava appunto di Giambeppe Succi, che aveva – grossomodo – preso i Madrigali Magri e li aveva trasformati nei Bachi da Pietra. La sostanza era la stessa: il faccione di Marsellus Wallace dietro al disco e quel tipo di impostazione musicale. Poche schitarrate, voci che sussurrano, quei testi lì. All’inizio del disco diceva “voglio scopare la vita nel sangue e sborrare sulla fine del mio essere di carne”, che non è uno di quei testi di cui pensi “ecco qualcuno che canta le cose che penso”, ma quantomeno te lo ricordi. E così insomma, i Bachi da Pietra da allora hanno fatto sei dischi lunghi più singoli/split/EP e quant’altro, suonando più o meno uguali fino a Quarzo e poi diventando qualcos’altro. E poi Bruno Dorella è andato avanti a fare dischi quasi solo e quasi sempre bellissimi, e lo trovate anche in giro per questo sito a parlarvi di dischi belli. E intanto Giambeppe Succi, che nel frattempo ha iniziato a chiamarsi Giovanni Succi, ha fatto due dischi solisti più un meraviglioso album di cover in cui riesce a risuonare una mezza dozzina di canzoni di Paolo Conte facendole suonare come fossero sue – se non è questo un complimento allora io non lo so – e una serie di altri progetti che nell’ultimo ventennio mi hanno salvato la vita un sacco di volte.

E io dovrei ancora star qui a spiegare chi è Giovanni Succi come se stessimo parlando di un Giovanni Truppi qualsiasi, boh, non capisco.

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