Bob Mould – Here We Go Crazy (Granary 2025)
Poco fa con alcuni amici parlavamo delle recenti dichiarazioni di Billy Corgan al podcast di Joe Rogan – non importa qui il contesto, solo quello che ha detto: «siamo arrivati a quel momento della storia in cui si inizierà a dire che gruppi come Nickelback e Creed “erano bravi” e “hanno scritto belle canzoni”». Di primo acchito, considerato il crollo verticale delle produzioni musicali di Corgan e l’astio che per tutta la vita ho provato per i due gruppi che ha menzionato, ho pensato a uno di quei momenti in cui un musicista dichiara l’indichiarabile per far parlare di sé. Poi però ho pensato che forse ha senso scavare più a fondo. Perché, ad esempio, gli appassionati di musica della mia generazione pensano che i Nickelback siano l’incarnazione di tutto quello che non va nella musica contemporanea?
Bisogna probabilmente scavare all’indietro, fino ai giorni in cui i primi dischi di questi gruppi (metteteci dentro anche Godsmack, Staind, Days Of The New, Sevendust eccetera) uscivano sul mercato. Avevano le accordature ribassate e i giri di chitarra ispirati ai dischi nu-metal, e suonavano canzoni che stavano ai primi Bush come i primi Bush stavano ai primi Nirvana.
L’impatto con la mia generazione, che all’epoca aveva passato da poco i 20, fu disastroso: era tutto quello che non cercavamo nei dischi. Ma in fondo qualche buona canzone radiofonica, dietro tutta quella coltre di suoni sbagliati, c’era anche, e un conto è ascoltarla da 23enne a Ravenna e un conto era sentirla a 13 anni in Nebraska (da qualcuno che magari 20 anni dopo scrive articoli di musica sul New Yorker). Come a dire: nessun suono è brutto o bello in assoluto, e il nostro valore di ascoltatori sarebbe anche di saper giudicare un certo disco/artista al di là delle concezioni sonore che vanno di moda. Bob Mould ha in comune con questi discorsi una tendenza naturale all’FM-rock americano, che in diverse occasioni aveva alienato un numero cospicuo di fan (tutti i suoi fan li deve a quello che ha fatto con gli Husker Du). Nell’ultima fase della sua carriera, diciamo da 13 anni a questa parte, aveva accantonato questa tendenza per vestire i panni del nonno punk: dischi magari un po’ insinceri nel porsi ma pieni di chitarre ed energia. Oggi è tornato al rock cafone, è decisamente meno spendibile in contesto punk ma suona carico e pieno di cuore. Voglio crederci.