Succede solo a “Beaches Brew”

Beaches Brew17

Gli Shellac a Beaches Brew, in una foto di Francesca Sara Cauli

A un certo punto inizia a girar voce che gli Shellac stasera non suoneranno. È il 7 giugno del 2017 e il tempo si sta mettendo male. Da qualche giorno girava una specie di allerta meteo legata a una possibile tempesta che prima o poi avrebbe potuto colpire, o non colpire, la costa romagnola. Le ultime previsioni a cui avevo guardato, nel tardo pomeriggio, la davano in arrivo per la tarda notte di quel giorno: buon per me, potrò vedere il gruppo che più mi piace veder suonare nel posto dove preferisco vedere concerti. A quanto pare però la tempesta si è voluta portare un po’ avanti: sto bevendo una birra a uno dei bar davanti alla tettoia, e quando arriva la prima cosa che sento è un silenzio improvviso –Weyes Blood stava suonando sul palco in spiaggia fino a un secondo prima, poi d’un tratto smette. Butto un occhio verso il mare e vedo nuvole nere dove pochi minuti prima, ne sono certo, c’era solo un cielo terso al tramonto. E poi inizia ad arrivare la montagna di sabbia che s’è alzata e la gente che era a vedere il concerto sta correndo a ripararsi sotto la tettoia.

Beaches Brew è un festival un po’ particolare. Evento infrasettimanale costruito probabilmente sui day-off del Primavera Sound di Barcellona, s’è ritagliato in pochi anni la reputazione di evento cardine dell’estate europea in musica. Se parli con qualcuno che viene da fuori è abbastanza facile capire perché preferiscono venire qui piuttosto che altrove: pomeriggio in spiaggia con clima mite, birre buonissime, a fine giornata puoi vederti dei concerti di livello senza manco doverti scrollare di dosso la sabbia. Il lato negativo: non è ancora estate piena, e a volte il meteo si mette di traverso. Il festival s’è ingrandito abbastanza da far sì che fosse necessario aggiungere un palco grande in piena spiaggia, subito dietro la collinetta. Una volta che l’hai montato, tocca sperare per il meglio. Nel palco sotto la tettoia, dove all’Hana-bi si fanno di solito i concerti, si può suonare anche con la pioggia. Stasera però butta male. I Preoccupations hanno il set pronto al coperto, basta girare il palco e si può suonare; non è banale ma non è impossibile. Ma stasera c’è così tanta gente, ed è tutta sotto la tettoia a ripararsi, saremo mille persone, che ne so, il triplo della gente che riesce a stare in questo spazio. E ho fortuna che sono capitato vicino ad un’amica che non vedo da tanto e possiamo farci pari con le chiacchiere, perché seguire i Preoccupations è difficile –un po’ per via della calca e un po’ perché i Preoccupations sono uno di quei gruppi postpunk che danno il loro meglio quando non li stai ascoltando. Poi incontro anche altre persone, perché il Beaches Brew è anche il festival in cui vengono a Ravenna le persone che il resto dell’anno ascoltano musica in altre città. Mi sento piuttosto sciolto e rilassato, a dispetto di tutto. Sono del tutto incosciente del fatto che a venti metri dalla mia testa si stia combattendo una specie di guerra.

Non ho mai lavorato all’organizzazione di un festival. Di tutto quel che succede a un concerto, fuori dal palco e dalla platea, la maggior parte dei presenti non sa quasi nulla. Lo staff è informalmente tenuto a fare quanto in suo potere per alimentare questo stato d’ignoranza, perché anche noi in questo posto abbiamo il nostro lavoro da fare – bere birre, contribuire al buonumore, amare i gruppi che suonano, limonare le nostre fidanzatine eccetera eccetera. Mentre noi continuiamo a intossicarci di birrette, lo staff e gli Shellac hanno deciso di spostare il concerto: dal palco grande, già montato, trasferiranno sotto la tettoia il minimo indispensabile per suonare. Per farlo, i ragazzi del service dovranno bardarsi come dei personaggi di Mad Max (abiti contro il vento, una maglietta calata sul viso per tener liberi naso e bocca) e iniziare a spostare amplificatori e testate in mezzo alla tempesta di neve. Viene ricavata una specie di via sicura, appena dietro il palco sotto la tettoia, e i ragazzi iniziano a lavorare di braccia. Poi all’improvviso la tempesta si quieta, il piazzale torna a essere agibile e la folla si disperde un pochetto: qualcuno è a torso nudo, visibilmente intossicato e sudato fradicio, qualche ragazza ha addosso un telo da bagno e qualcun altro resiste con una giacca a vento. Ce n’è per tutti i climi. L’estasi ubriaca dei primi fricchettoni che si rimettono in piedi sulla collina si porta via quel po’ di brutto tempo che è rimasto. La luce del palco grande splende dietro di loro e li rende il soggetto perfetto per la foto di Francesca Sara Cauli che mi arriverà tra qualche giorno. Poi gli Shellac possono iniziare a suonare.

È che al Beaches Brew funziona sempre tutto a meraviglia, ecco.

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