Razzisti a parole

Intervista ad Andrea Moro, autorevole esperto di linguaggio e diversità

Moro“Forse Babele è un dono, forse tutte le diversità lo sono”. Andrea Moro, neurolinguista e romanziere ,docente di linguistica alla Scuola Superiore Universitaria IUSS di Pavia, è uno dei più importanti esperti di linguaggio e diversità. Il suo ultimo libro si intitola La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo (La Nave di Teseo).

Lei scrive che le diverse lingue, nonostante le molte differenze, hanno più cose in comune tra loro di quelle che le fanno differire. Esiste quindi una maniera univoca di esprimersi attraverso il linguaggio a prescindere dall’area linguistica di provenienza?
«È una domanda complessa, perché ci obbliga a capire bene cosa si intenda per “maniera”. Se il termine si riferisce alla struttura del codice, la risposta è affermativa: malgrado molte differenze superficiali che addirittura rendono talvolta le lingue mutuamente incomprensibili, la struttura è sostanzialmente invariata. Se si riferisce al lessico, cioè alle parole, ci possono essere variazioni anche significative sebbene non illimitate. Ad esempio, se confrontiamo i nomi che si associano alla struttura di una mano, lingue anche molto differenti producono parole simili. Quando invece in una lingua manca un nome, è praticamente sempre possibile che si possa esprimere lo stesso concetto, astratto o concreto che sia, con una perifrasi, cioè letteralmente con un giro di parole. Questo capita con concetti difficili ma anche semplici. Basti pensare ai cuochi francesi che quando cucinano le patate non hanno un nome per indicarle ma le chiamano “mele della terra”, pommes de terre. Ma la cosa più importante è che la variabilità di espressione è soprattutto individuale: ci sono capacità molto diverse tra una persona e un’altra che parlano la stessa lingua, spesso molto più evidenti che tra due che parlano lingue diverse e certamente non è determinato dalla lingua che si parla».

Noam Chomsky diceva che il linguaggio forma il pensiero e noi pensiamo in base alle parole che conosciamo, lei è d’accordo? Secondo lei la lingua che parliamo, che come ogni lingua ha alcune parole che in altre lingue non sono traducibili, quanto influenza il nostro modo di pensare?
«Credo che Chomsky volesse soprattutto dire che la struttura del linguaggio è in qualche modo indipendente dal pensiero e che semmai il pensiero utilizza la struttura linguistica per manifestarsi. Inoltre, come accennavo prima, non mi risulta esistono esperimenti che provino che le lingue diverse influenzino il modo di pensare. Anzi, dove gli esperimenti ci sono, come ad esempio nell’ambito della logica o della percezione dei colori, come spiego in un libro recente (La razza e la lingua, La nave di Teseo, ndr) le lingue non mostrano differenze».

Che cos’è il “razzismo linguistico”?
«Il razzismo moderno è nato su base linguistica. Il delirio della superiorità della “razza ariana” fu proprio proposto da un linguista nella seconda metà dell’Ottocento sulla base dell’idea che la lingua ariana fosse superiore alle altre e che come tale potesse dare uno strumento maggiore per comprendere la realtà. La linguistica di fine Ottocento comprese che si trattava di una falsa notizia, di un errore, ma la propaganda occidentale, in primis quella nazista, ignorò la confutazione e manipolò le coscienze sulla base di questo errore clamoroso e falso. Oggi ancora sono molto vive due idee indipendenti che però se sono combinate insieme costituiscono una miscela deflagrante: che a seconda della lingua si veda la realtà in modo diverso e che esistono lingue “geniali”. Non esistono lingue geniali, semmai commenti geniali a lingue normali: come i commenti sulla lingua greca antica e sul latino che da duemila anni sono il modello per eccellenza dell’occidente. Ci sono poi anche casi di imposizione di lingue ritenute perfette».

Ricorre il 700enario della morte di Dante che nobilitò la lingua volgare. Nel suo libro ricorda come nel medioevo le uniche lingue che venivano considerate come autentiche fossero il latino e il greco, le lingue parlate non avevano valore “grammatico”. Oggi si sta cercando di ridare valore anche ai dialetti, per molti decenni dileggiati come “non-lingue”, lo stesso avviene con alcune lingue parlate solo in villaggi isolati in centro Africa e in Oceania, cosa conferisce valore a una lingua? Quanto influì per l’affermarsi del volgare un autore popolare come Dante?
«Il valore di una lingua rispetto a un dialetto è sostanzialmente politico: non esiste un modo, data una certa frase, per sapere se appartiene ad una lingua o ad un dialetto. Bisogna confrontarla con altre grammatiche e capire se ci sono parentele e quali sono i rapporti politici dei territori nei quali le si parla. L’italiano, ad esempio, sappiamo tutti che era la lingua di Firenze, sia pure raffinata ed adattata; se si fosse scelta la lingua di Venezia o oggi parleremmo di dialetto fiorentino e la lingua italiana sarebbe il dialetto di Venezia».

La tentazione di una lingua unica è sempre esistita, ci sono stati esperimenti fallimentari come l’esperanto, oggi l’inglese ha sostituito molte parole italiane nel linguaggio quotidiano, suscitando anche il disappunto di alcuni intellettuali. Secondo lei l’inglese globalizzato è più una opportunità per comunicare più facilmente o un rischio di impoverimento culturale?
«La tentazione di una lingua unica è veramente un sogno di sempre ma alla fine, al di là dei progetti a tavolino, vincono anche in questo caso i giochi politici (e bellici) tra i paesi: il greco della koinè di epoca alessandrina e il latino sono proprio due tempi che si affiancano alla situazione attuale dove, dopo la seconda guerra mondiale, come esito del nuovo asseto si è imposto l’inglese, sia pure in inglese in qualche modo semplificato e non certo così ricco come nella prosa di Shakespeare. La domanda sull’effetto dell’inglese non è di facile risposta: anche l’inglese, d’altronde, ha un lessico che per un terzo è latino, un terzo francese e un terzo germanico. Tutte le lingue manifestano contatti con altre lingue. Semmai l’impoverimento c’è negli individui quando utilizzano una parola inglese senza sceglierla come alternativa ad una Italiana ma la sentono come obbligo. Questo veramente è segno di ignoranza. D’altronde l’idea di imporre una lingua perfetta è un tema scottante. Ne ho parlato anche al di fuori dei miei saggi: ho costruito un romanzo proprio incentrato sulla costruzione di una lingua artificiale che invece di facilitare la comunicazione finiva per seminare morte e sconcerto (Il segreto di Pietramala, La nave di Teseo, ndr)».

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