A proposito di dischi dell’anno…

Tra qualche settimana saremo sommersi dalle tradizionali classifiche di fine anno, di un anno, il 2016, che già si può definire straordinario, con almeno cinque-sei dischi che resteranno ognuno a loro modo nella storia della musica di questo nuovo millennio. E allora entriamo in clima classifiche con una rapida scorsa ai migliori dischi – anno per anno – scelti cercando un buon compromesso tra il gusto personale e l’importanza oggettiva dell’album in questione. Uno solo (evitando di ripetere gli stessi artisti) per ogni anno, andando a ritroso fino al 1978 (un anno che solo per caso coincide con quello di nascita di chi scrive), un’operazione complicatissima e fin quasi suicida che mai nessuno ha avuto il coraggio di realizzare fino ad oggi. Eccomi.
Il 2015 è stato senza dubbio l’anno di Kendrick Lamar e del suo “To Pimp a Butterfly” sorta di manifesto del rap e della musica black in generale, musica black che ha marchiato a fuoco gli ultimi anni, tanto che nel 2014 è sicuramente D’Angelo con il suo “Black Messiah” (appunto) a staccare tutti, nel 2013 (probabilmente) l’omonimo disco di Beyoncé e nel 2012 l’incredibile debutto di Frank Ocean, con “Channel Orange” che ridefinisce il concetto di r&b e soul. Nel 2011 per fortuna c’era (e ci sarà anche nelle classifiche di quest’anno) una grande Pj Harvey a ricordarci con “Let England Shake” che il rock forse non è ancora morto, anche se poi si è costretti a tornare in territori neri nel 2010 con il micidiale “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” di Kanye West. Il 2009 è l’anno del capolavoro per cui saranno ricordati tra gli appassionati del pop psichedelico (chiamiamolo così) gli Animal Collective, “Merriweather Post Pavilion”, mentre nel 2008 esplode tutta la classe dei Portishead con il loro “Third” e il 2007 verrà ricordato per la definizione del dubstep del “Untrue” di Burial, di cui attendiamo ancora un seguito. Più complicato scegliere un disco del 2006 anche se di certo merita la segnalazione il folk rinascimentale (come da copertina) di “Ys” di Joanna Newsom. Il 2005 è invece l’anno di “Illinois” di Sufjan Stevens, con tutta la sua coloratissima carica pop, così come trascinante è anche il “Funeral” con cui nel 2004 iniziano a farsi conoscere (prima di approdare negli stadi) gli Arcade Fire. Complicata la scelta, di nuovo, nel 2003 (vada con la sintesi dell’arte di Cat Power in “You Are Free”), molto semplice per il 2002  con il capolavoro “Yankee Hotel Foxtrot” in cui i Wilco portano l’Americana nel nuovo millennio. Per il 2001 la scelta potrà far discutere e vista oggiforse  anche giustamente, ma il piuttosto banalotto debutto degli Strokes, “Is this it”, in quel momento suonava dappertutto, e ci piaceva. Si torna a fare sul serio nel 2000 con “Kid A”; e nulla (Radiohead compresi) fu come prima. Nel 1999 a conquistare il mondo questa strana forma di art-rock cantato in islandese che porta il nome di Sigur Ros (e “Ágætis byrjun”) così come nel 1998 il tocco francese degli Air (con “Moon Safari”), mentre il 1997 è l’anno del rock psichedelico totale degli Spiritualized di  “Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space” (quando si dice un capolavoro fin dal titolo…). Ha vent’anni ma non li dimostra il seminale “Entroducing” di Dj Shadow con cui liquidiamo il 1996, nel 1995 Elliott Smith pubblica il suo secondo album (l’omonimo) e tanto ci basta, mentre l’indie-rock in lo-fi dei Pavement finisce in questa lista nel 1994 con il  loro “Crooked Rain, Crooked Rain”, che arriva dopo il “Debut” di una certa Bjork del 1993, l’“Automatic for the people” dei Rem (1992) e il “Nevermind” dei Nirvana (1991). Nel 1990 inventano il post-hardcore i Fugazi con “Repeater” e il resto è storia da ripassare velocemente: “Doolittle” dei Pixies (1989); “Daydream nation” dei Sonic Youth (1988); “Warehouse: Songs and Stories” degli Husker Du (1987), “The queen is dead” degli  Smiths (1986); “Psychocandy” dei Jesus and Mary Chain (1985), “Let it be” dei Replacements (1984), “Swordfishtrombones” di Tom Waits (1983); “Nebraska” di Springsteen (1982); “Deceit” dei This Heat (unico vero sconfinamento nello “sperimentale”, me ne scuso, 1981); i Talking Heads di “Remain in light” (1980), “London calling” dei Clash (1979) e i Pere Ubu di “The modern dance” (1978).

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