Ancora classifiche: i 40 del nuovo secolo

Terminata la fatica per stilare quella tradizionale di fine anno, sono ancora in vena di classifiche. Che sono solo un gioco, certo, ma nel caso della musica nel nuovo millennio potrebbero rappresentare anche una buona mappa per districarsi in una produzione sterminata, grazie anche a internet e alle nuove tecnologie. Le regole: dischi pubblicati dal 2000 (naturalmente compreso) in avanti. Ordine: casuale.
L’inizio di questo nuovo secolo – mai nel rock (in senso lato), c’erano stati due secoli – sarà ricordato, voglio sperare, innanzitutto per la coraggiosa operazione di un gruppo popolare come i Radiohead, che potevano campare cent’anni suonando canzoni rock vagamente depresse per le folle, ma hanno preferito fare un tuffo nell’elettronica sperimentale, restando fondamentelmente se stessi, con due album ormai scolpiti nella storia, Kid A e Amnesiac (ne cito due, unica eccezione, ma sono frutto più o meno delle stesse session di lavoro). Poi ci sono i Wilco, che anche loro hanno aggiornato un genere, l’alt.country, o l’Americana, grazie anche al contributo di un genietto dell’avanguardia come Jim O’Rourke, in un disco epocale come Yankee Hotel Foxtrot. Dietro questi (ok, l’ordine non era così casuale), ce ne sono tanti che meritano di entrare in una classifica del genere: proseguendo nella via del folk e dintorni, per esempio, quello delle origini riportato d’attualità in versione hippy da Devendra Banhart in modo magistrale in Rejoicing in the Hands (e poi solo con l’album gemello Nino Rojo, prima di perdersi totalmente), la musica fuori dal tempo dell’arpista-angelo Joanna Newsom che nel 2010 con Have One on Me fa addirittura meglio di Ys (già inserito da molti tra i titoli più importanti dello scorso decennio), la trascinante enfasi del Bright Eyes di I’m Wide Awake, It’s Morning,  fino ai commoventi American (scelgo il IV, The man comes around) di Johnny Cash e Is a woman dei Lambchop, dove l’alt.country è un ricordo dietro voce (e che voce) e pianoforte. E a proposito di voce e pianoforte, ecco Antony (and the Johnsons) che ora fa duetti con Battiato (mi dispiace, ma non ce la faccio a parlarne bene di questa cosa), ma che ha pubblicato anche I am a bird now. Dal folk alla folktronica (ma più che altro un album irresistibile e stop) con Neon Golden dei tedeschi The Notwist, mentre per passare a dischi più strutturati verso il rock-pop, da segnalare il debutto (Funeral) degli Arcade Fire, le melodie cristalline di un Sufjan Stevens (che entra in classifica con il pop di Illinois) fino al post-punk ripreso dagli Interpol, che come quasi tutti non inventano nulla, ma che in Turn On the Bright Lights continuano a far venire i brividi. E non mi vergogno a inserire in questa classifica anche classici – volenti o nolenti – come l’Elephant dei White Stripes (tristemente noto per il po-poropopopo-po entrato negli stadi di calcio), il debutto degli Strokes (che poi si sono rivelati un fuoco di paglia, ma tant’è) o il secondo disco, quello della maturità dopo l’ottimo esordio, dei Coldplay, prima del loro crollo (dal punto di vista artistico, non certo commerciale). Restando in tema di rock, resta quasi inspiegabile, ma la malinconia dei National è di quelle che ti entra dentro e si potrebbe scegliere un disco a caso (io scelgo Alligator) mentre si va indietro nel tempo ma ne vale la pena per riscoprire le atmosfere fumose e sensuali del Melody Of Certain Damaged Lemons dei Blonde Redhead. Restando in campo di voci femminili, resta una pietra miliare You are free, dove Cat Power unisce le depressioni iniziali con una vena più rock. Sono una droga l’alternative di The Moon & Antarctica dei Modest Mouse, di You Forgot It in People dei Broken Social Scene, o di Return To Cookie Mountain dei Tv On The Radio, mentre entriamo nel mito con i Fugazi (il disco è The Argument, giusto perché è l’unico inciso nei 2000) e con il ritorno dei Portishead di Third, che è trip-hop solo per modo di dire. Non so bene come definire le suite in islandese (ma anche in una lingua inventata) dei Sigur Ros che forse raggiungono l’equilibrio perfetto con ( ), mentre arriva proprio da un altro mondo la musica della seconda parte di carriera di Scott Walker, tipo The Drift, ma qui chiamiamola pure avanguardia. Ha a che fare con l’avanguardia anche il rock di tre originalissime band della scena (più o meno) newyorkese, chesono tra le migliori degli anni Zero: gli Animal Collective (il loro capolavoro è Merriweather Post Pavilion, ma in classifica ci finisce anche Person Pitch di Panda Bear, che è uno dei componenti) i Liars (ne preferisco la versione tribale di Drum’s not dead) e il progetto art-pop Dirty Projectors (facciamo con Bitte Orca). Ancora più fuori dai canoni la musica – a tratti disturbante – di Xiu Xiu, che con Knife Play mette a segno uno dei suoi pochi centri pieni. Allontanandoci dalla forma canzone, ecco il capolavoro post-rock di Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven! dei Godspeed You Black Emperor! e quello alt-hip hop dell’omonimo debutto dei Clouddead, poi una puntata nel dubstep con l’epocale (e scurissimo) Untrue di Burial, il poetico rumore di Endless summer di Fennesz e quello sonico di Street Horrrsing, il debutto dei Fuck Buttons, l’house paradisiaca di Dj Sprinkles (in Midtown 120 Blues) o l’elettronica tribale di Shackleton (nei suoi tre Ep) e quella cinematica dei Boards Of Canada di Geogaddi. Chiudo con due cose mainstream: Discovery, album di svolta synth-pop dei Daft Punk del 2001, e Channel Orange, strepitoso viaggio nella black music del 2012 a firma Frank Ocean. Sono solo quaranta dischi, ed è stato difficile.
Non ci sono per esempio Smog e Bonnie Prince Billy, che però il meglio lo hanno dato nei Novanta… e va beh, basta.

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