Dai Fuck ai Karate: non dimenticateli

In una giornata come un’altra, verso sera, in sottofondo all’Hana-Bi (tanti auguri e lunga vita, naturalmente, al bagno di Marina, che ha appena festeggiato i suoi primi dieci anni di attività) si possono riconoscere i Grandaddy. Li avevo ormai rimossi, i Grandaddy, con il loro folk-pop sognante. E risentirli nei giorni scorsi all’Hana-Bi mi ha semplicemente permesso di realizzare che sono uno di quei gruppi che non ce l’hanno fatta, a entrare nella storia della musica rock. O anche solo a far parlare di sé dopo lo scioglimento. Uno di quei gruppi probabilmente destinati a essere dimenticati. Storia triste, comune a molte altre band che invece non se lo meriterebbero proprio. E che invece hanno lasciato molto a tanti fan.
Tipo i Bedhead, per esempio, con quel loro irresistibile suono elettrico lento e circolare (slowcore, lo chiamarono). O i Codeine, loro fratelli più autorevoli.
Tipo i Fuck, con il loro folk da fuori di testa, canzoni di due minuti, dischi di cui ti innamoravi dalla copertina,  un po’ anche perché c’era scritto proprio Fuck, lì sopra.
Tipo i June Of 44, che avevo dimenticato anch’io, e che sto riascoltando sentendo ancora quella sensazione che ti faceva pensare che, no, questo non è solo rock. E infatti lo chiamarono post-rock, e non saprei fare di meglio.
Tipo gli Smog, che poi è lo pseudonimo di Bill Callahan, che c’è ancora, che forse lui in qualche enciclopedia musicale per fortuna si può trovare, ma che non è mai tornato a quei livelli, quelli di Smog. Di solito per lui si parla di “cantautorato lo-fi americano”, quello che va da Nick Drake in giù. Io so solo che è stato diverse volte la mia “band” preferita.
Tipo i Palace, per restare nello stesso ambito un po’ depresso, o Palace Brothers, o Palace Songs, che poi sono semplicemente Will Oldham, che poi è Bonnie Prince Billy, e che quindi non verrà dimenticato, no. Purtroppo verranno dimenticati i Palace, che purtroppo è peggio.
Tipo le Raincoats, gruppo al femminile che ha formato una generazione e che ha fatto dell’originalità una bandiera tra folk, sperimentazione e attitudine punk.
Tipo i Karate e la chitarra del loro leader Geoff Farina, che dall’indie è arrivata fino a toccare lidi jazz, per la gioia di chi come noi cercava qualcosa di diverso.
Tipo i Go-Betweens, che poi sono i Beatles australiani, inutile girarci intorno, e che è un mondo brutto, quello che non li ha fatti diventare milionari grazie al loro pop cristallino.
Tipo i Red House Painters, per tornare al filone di musica depressa e rallentata, ma con tanto, tanto, stile.
Tipo Silver Jews, il folk-alternative-country-pop americano al massimo livello.
Tipo gli Hefner, che sembravano canzonette stupide, ma in realtà non ti lasciavano più stare…
O tipo gli Arab Strap… ma la lista è troppo lunga e non mi basterebbe neppure la prossima rubrica. Adesso, almeno, mi sento meglio. L’ho fatto per loro, l’ho fatto perché non voglio dimenticare.

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