D’Angelo e gli altri dischi da non perdere degli anni ‘10

Sono debitore ai lettori di questa rubrica del disco dell’anno del 2014, rimasto escluso dalla classifica pubblicata l’11 dicembre, ma che è senza ombra di dubbio Black Messiah che l’americano D’Angelo, considerato tra i fondatori del cosiddetto neo soul, si è divertito a far uscire (circa quindici anni dopo il suo ultimo disco, non so se rendo l’idea) a metà dicembre senza alcun tipo di preavviso, quando un po’ tutte le tradizionali classifiche di fine anno erano già state stilate sui media di mezzo mondo. Chissenefrega delle classifiche, direte voi, e avete ragione. L’importante è non dimenticarselo, questo disco, che mi ha talmente ossessionato in questi ultimi giorni che non so più davvero come descriverlo (sappiate solo che si sta parlando di musica black che cita i classici, da Marvin Gaye fino a Prince, per arrivare a un suono del tutto contemporaneo passando dall’hip-hop al soul, dal funk al blues, dal gospel al flamenco). Un disco che chiude la prima metà degli anni Dieci del ventunesimo secolo, un decennio che sta seppellendo il compact disc ma per fortuna manterrà intatto il fascino dell’album in quanto collezione ordinata di canzoni/tracce (che al massimo lo si ascolta su Spotify ma tale resta); un decennio finora senza rivoluzioni dal punto di vista musicale, forse neanche nuove tendenze, ma di musica comunque bella, che rimescola passato e presente con un occhio al futuro (chissà poi cosa vuol dire, ma mi pare renda l’idea). E allora ecco una lista di dischi da non perdere di questa primo lustro (2010-2014), partendo dal nuovo D’Angelo, appunto, e continuando sulla strada black e dintorni con la Beyoncé matura che l’anno scorso ha fatto uscire un disco (il suo omonimo) proprio come D’Angelo, fuori tempo massimo per le classifiche di fine anno, ma che resterà scolpito nella storia della musica pop di questi anni. Il 2012 era stato invece l’anno di Frank Ocean (con il suo Channel Orange) e del rapper Kendrick Lamar (con Good Kid, M.A.A.D City), mentre per restare nel campo dell’hip hop è doveroso inserire Kanye West almeno con  My Beautiful Dark Twisted Fantasy (2010), più vario e originale del comunque grande, più recente, Yeezus. Cambiando leggermente strada, una delle poche cose nuove accadute in questi anni è rappresentata forse dall’exploit di James Blake che nel 2011 con il suo album omonimo, sorta di blues del futuro, ha dato il via alla nuova ondata di cosiddetta elettronica emozionale, mentre per quanto riguarda quella più pura, e senza cantato, i dischi da non perdere di questi anni sono il James Holden di The Inheritors (2013), l’oscurità dei Demdike Stare di Elemental (2012) il sottovalutato Black Noise (2010) di Pantha Du Prince e poi ancora alcuni dischi che non sono “solo” elettronica, ma “anche”, come l’ostico ma geniale mix tra dub, tribalismo e sperimentazioni del Shackleton di Music for the Quiet Hour / The Drawbar Organ e all’opposto il facile ma ugualmente geniale Random Access Memories dei Daft Punk. Parte da un suono tribale ed elettronico anche lo splendido epitaffio degli svedesi The Knife (Shaking the habitual, anno 2013) che merita di entrare in lista così come alcuni dischi che escono un po’ da qualsiasi catalogazione come il Bish Bosch (2012) dell’enorme Scott Walker o i “canti” della sassofonista Matana Roberts nella saga Coin Coin (il primo disco del 2011) o le mille vie di un altro sassofono, quello di Colin Stetson di New History Warfare Vol. 2 (2011) o lo scontro tra free jazz, noise e improvvisazioni della Fire! Orchestra di Exit (2013) o il monumentale rock sperimentale e apocalittico degli Swans di The Seer (2012). Passando invece alla forma canzone più (o meno) tradizionale mi tengo stretto i National del successo planetario di High Violet (2010) e allo stesso tempo il folk-rock di culto fuori dagli schemi dei Dirty Projectors (Swing Lo Magellan, 2012); il rock da stadio definitivo (e molto altro) degli Arcade Fire di Reflektor (2013) e allo stesso tempo le ballate depresse dell’anno appena passato del Sun Kil Moon di Benji; il citazionismo in lo-fi di Ariel Pink’Haunted Graffiti di Before Today (2010) così come il folk rivisto dal Bon Iver dell’album omonimo (2011); l’indie-rock di classe dei Vampire Weekend di Modern Vampires Of The City (2013) o dei Deerhunter di Halcyon Digest (2010) come il dream pop dei Beach House di Teen Dream (2010) fino a tre meravigliose cantautrici come Joanna Newsom e il folk-pop barocco del capolavoro (in disco triplo) Have One on Me (2010) l’insolita Pj Harvey di Let England Shake (2011) e il cantautorato minimale di Fiona Apple di The Idler Wheel… (2012). Sono 29 dischi, mi rendo conto. Per fare trenta lasciatemi citare il controverso Le Noise (2010), voce e chitarra inquiete, per un Neil Young minore ma davvero da riscoprire.

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