giovedì
26 Giugno 2025

Il nuovo Baustelle, fin troppo libero

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Baustelle Amore E ViolenzaA far sorgere i primi sospetti sono stati direttamente loro su Facebook, affrettandosi a battezzare il nuovo album come «il più libero» della loro carriera, ancor prima che potessero giudicarlo gli altri. Quasi a rassicurare tutti i fan in trepidante attesa, che nel frattempo pare siano pure cresciuti, tanto da affollare le Feltrinelli di tutta Italia solo per poter vedere i loro idoli. E tanto da far nascere parallelamente sul web una sorta di campagna di odio con gara degli insulti più arguti. Probabilmente Francesco Bianconi se l’è pure cercata, con quei baffi, l’aspetto così ostentamente bohémien, i testi ricercati e volutamente desueti, il gusto del kitsch. Così in vent’anni i toscani Baustelle sono passati per molti dall’essere un geniale gruppo di anticonformisti da custodire tra i segreti più preziosi a diventare la colpa di tutti i mali della nuova scena indie-pop italiana. Può capitare. La verità è che dopo vent’anni di carriera si sono guadagnati sul campo un ruolo di primissimo piano nella musica d’autore italiana del ventunesimo secolo, forti di una capacità non così comune di arrivare a tutti pur perseguendo una ricerca artistica di livello, con un paio di album riusciti, altri meno, alcune canzoni da ricordare fino all’apice qualitativo della loro carriera nel 2013 con un disco ambizioso come Fantasma. Difficile ripartire dopo quello, se non azzerrando tutto, come infatti accade in questo L’amore e la violenza, senza più l’orchestra del precedente ma con i sintetizzatori, senza più quella complessità a favore dell’immediatezza, meno intellettuale e più «oscenamente» pop – per dirla alla Bianconi. Un disco che è tutto una citazione, dal sacro al profano, dall’alto al basso, dai Beatles ai Pulp, da De Gregori agli Abba, da Sandokan (!) ai Ricchi e Poveri, da Ciampi ai Daft Punk. Pure troppo, lo si sarà capito. E dire che l’inizio, una volta fatta l’abitudine a un “Vangelo di Giovanni” che sprizza Battiato da tutti i pori, è più che promettente: dallo stiloso singolo “Amanda Lear” al più classico crescendo emotivo di “Betty” (la preferita di chi scrive). Poi l’album è un saliscendi con alcune cadute di stile piuttosto clamorose e il meglio da ricercarsi sempre nelle ballate (mai un buon segno…) o in alcune soluzioni sonore interessanti che si infrangono spesso in ritornelli che al terzo ascolto sfiniscono anche i bendisposti. Forse è vero che è il loro disco più libero, ma questo lo rende a volte insopportabilmente baustelliano (chiedo scusa), quando invece Bianconi e soci hanno dimostrato di dare il meglio in progetti più ambiziosi e ragionati. Chiamiamolo disco di transizione, di certo sotto le legittime aspettative.

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