L’ambiziosa sfida degli Arcade Fire

C’è l’indie-snob che non capisce perché si stia parlando solo di questo, con tutti quei bei dischi che ci sono in giro e che non caga nessuno. C’è il fan della prima ora che ancora non si capacita di ascoltare un loro pezzo nella sigla di Lilli Gruber e che è disperato perché all’inizio li conosceva solo lui e i suoi amichetti e ora invece ne parlano i Tg. C’è il musicista in cerca di notorietà che finge di non provare invidia e dice che loro sono solo un prodotto commerciale. C’è il depresso che ascolta solo folk apocalittico che non capisce tutto questo entusiasmo nella musica, e anche tutto questo entusiasmo in generale. C’è il fan sfegatato che si è comprato il disco in anteprima sei mesi fa e lo sta ancora aspettando per colpa delle poste, mentre il resto dell’umanità lo conosce già a memoria. C’è il critico musicale che non sa che dire. E c’è anche chi invece ha una teoria articolata secondo la quale sono stati creati dalla stampa per prendere il posto degli U2. C’è poi (quasi tutti) chi ne parla dopo averlo ascoltato una volta distrattamente.
Ecco, almeno questo posso scriverlo senza timore di smentita. In questi giorni ho ascoltato interamente il (doppio) disco nuovo degli Arcade Fire una quindicina di volte. Il fatto è che (rappresentando tra l’altro un bel mix di alcuni dei casi sopra citati), mi sarebbe piaciuto molto anche a me stroncare, in questa mia inutile rubrichetta, un grandioso prodotto di marketing come il nuovo Arcade Fire. E dopo il primo ascolto quasi quasi ci credevo. In realtà, invece, come poi testimoniato anche dalle recensioni dettagliate dei più importanti media internazionali (dal 9.2 di Pitchfork, in internet, ai paragoni di Rolling Stone con album di svolta epocali come Kid A dei Radiohead o Achtung Baby degli U2) questo è un mezzo capolavoro. Di sicuro il disco più ambizioso e complesso degli Arcade Fire, di cui non sono peraltro un grande fan, tanto per mettere le mani avanti. A parte la sorprendente prova di debutto da piccola orchestra rock da tramandare ai posteri, i due dischi successivi che hanno portato all’esplosione della band canadese erano semplicemente belle canzoni confezionato con una formula di rock epico e più o meno orchestrato molto riconoscibile. Bene, ma stop. Questa volta forse ci sono meno “canzoni”, diciamo così, ma gli Arcade Fire hanno fatto un passo oltre. Dietro questi ottanta minuti di musica c’è un gruppo che ha deciso di mettersi in gioco e di sperimentare, restando nell’ambito di quello che possiamo pur chiamare senza paura “rock commerciale”. Così ci sono tante influenze e rimandi: i soliti U2, ma anche ritmi caraibici, i Clash di Sandinista, i Beatles, il synth-pop, la disco bianca. Restando comunque sempre molto “Arcade Fire”. Non credo ne potessero venir fuori meglio, da tutto questo hype. Hanno alzato l’asticella prendendosi dei rischi (come quello di suonare kitsch, alle orecchie di quegli snob di cui sopra), ma tirando fuori un disco “importante”. Non come quello dei National per esempio, che preferiscono fare sempre, più o meno, lo stesso (magari anche bello, ma non “importante”). Come il nuovo Daft Punk, invece, sì. E chi non gradisce, si vada ad ascoltare elettronica sperimentale. Cosa che poi, dopo questa sbornia, non escludo di fare pure io naturalmente.

EROSANTEROS POLIS BILLBOARD 15 04 – 12 05 24
CENTRALE LATTE CESENA BILLB LATTE 25 04 – 01 05 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24