L’ultimo “Mucchio Selvaggio” e quella copertina di “Rolling Stone”

Il Mucchio Selvaggio N 1Chiedo scusa se a questo giro parlerò più che altro di me, o meglio, di noi. Ma non credo sia colpa mia se in Italia le riviste musicali oggi vendono in media 3mila copie al mese in tutta la Penisola. E sicuramente non è colpa mia – visto che continuavo a comprarlo, insieme tra l’altro ad altre riviste che spesso non riesco neppure a leggere – se purtroppo il più longevo giornale musicale italiano ha chiuso da un giorno all’altro senza neppure darne preavviso sull’ultimo numero, tuttora in edicola. È Il Mucchio Selvaggio, rivista fondata nel 1977 e che – come hanno generalmente scritto un po’ tutti i commentatori in questi giorni – ha perlomeno tentato di promuovere anche in Italia una sorta di controcultura, formando musicalmente (e non solo) generazioni di appassionati, riuscendo sempre a sopravvivere a più o meno radicali cambi di linea editoriale, di formato, di strategie e a clamorosi scazzi interni. Fino all’ingiunzione di pagamento del tribunale a favore della vecchia direzione che ha portato quella nuova ad annunciare nei giorni scorsi la chiusura definitiva, dopo anni di polemiche riguardanti in particolare un utilizzo, diciamo così, non proprio specchiato dei contributi pubblici di cui ha goduto per anni il Mucchio (alcune centinaia di migliaia di euro l’anno).

Resta il fatto che oggi il Mucchio non esiste più ed è un momento triste per la musica in Italia e per la carta stampata in generale, in un settore comunque molto più conservatore di quello che sembra, dove le riviste sono ancora costrette a fare copertine e mega approfondimenti su artisti o gruppi storici perché il “nuovo” anche nel mondo del rock non è visto di buon occhio. Fatto sta che il Mucchio (nel quale tra l’altro – curosità – collaborava da qualche tempo in maniera fissa con una rubrica anche il ravennate Chris Angiolini, patron di Bronson Produzioni) stava pian piano risorgendo (da una sorta di azzeramento della redazione) in maniera più che dignitosa (con una nota di merito per la grafica) contribuendo a lanciare ottime firme, oltretutto a maggioranza femminile (cosa rara nei magazine rock), tra cui oggi l’ottima Elena Raugei o, in precedenza, la scrittrice Claudia Durastanti.

Ognuno di noi ha i suoi ricordi legati al Mucchio. Per me, innanzitutto, era un rito settimanale di cui ho molta nostalgia (ho iniziato a leggerlo in quel bizzarro periodo in cui aveva scelto di abbandonare il format mensile), erano gli editoriali (in varie forme) di Max Stefani, gli articoli di giornalisti che poi ho continuato a seguire come Carlo Bordone (memorabile un suo scritto sui Pavement) o Eddy Cilìa o di altri che seguo mio malgrado (Andrea Scanzi, che all’epoca si firmava “Rui” e parlava di calcio con un tocco poetico). Ma il Mucchio per molti è stato anche molto di più di un giornale musicale, grazie alla scelta di aprire sempre di più alla politica, alla società (con tanto di ribellione della “base”) in maniera a volte quasi patetica, va detto, ma, in una parola, sempre con un suo stile irriverente. E non era poco.
Anche alla luce di questi ricordi, fa sorridere vedere oggi il dibattito sulla copertina arcobaleno contro Salvini del Rolling Stone (che in quattro anni pare sia passato a un terzo delle 34mila copie vendute del primo numero italiano, tra l’altro). Operazione quasi patetica se si pensa a chi l’ha orchestrata (leggendo anche i retroscena su quello che è, dall’interno, Rolling Stone), tragicomica se si pensa all’esito finale e al modo in cui sarebbero stati coinvolti, anche inconsapevolmente, i (pochissimi) firmatari dell’appello anti-Salvini.
Ma comunque una scelta di schierarsi non banale, che in realtà apprezzo. Sarà che mi ricorda il Mucchio degli anni d’oro…

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