sabato
21 Giugno 2025

Un festival di Sanremo da standing ovation (scherzo)

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In quei pochi spezzoni che ho avuto modo di vedere del festival di Sanremo c’era sempre una standing ovation (basta che si alzi una persona, anche solo per andare al cesso, ed è fatta, mi pare di aver capito). In realtà come prevedibile il festival è stato alquanto mediocre, senza molti alti (ma va?) però in realtà anche senza clamorose cadute nel vero e proprio trash come ai tempi di Toto Cutugno, Al Bano o anche solo la Tatangelo. Tutto in stile Fazio, insomma, che d’altronde ha ribadito il concetto dicendo che la sua rock star preferita è Ligabue (standing ovation anche per lui). E così non ha vinto un Mengoni, un’Emma, un Valerio Scanu, un Marco Carta, una Lola Ponce, un Povia (che, ve lo giuro, sono stati i vincitori degli ultimi anni, Vecchioni a parte) ma ha vinto Arisa, con un pezzo che sarà sì sanremese (e forse pure un plagio), ma con gusto, diciamolo, perché Arisa in fondo una dignità come artista ce l’ha pure. E non sarebbero male neppure gli altri due finalisti, Renzo Rubino (che è giovane ma sembra già cantautore vero) e Raphael Gualazzi, se quest’ultimo non fosse diventato quasi una macchietta di se stesso (già dopo pochi anni di esposizione mediatica) e non avesse presentato un pezzo insopportabile nel suo essere a tutti costi (come hanno titolato i giornali) «il jazz che incontra la musica elettronica sul palco di Sanremo», ma per piacere. Un festival medio, dove neppure Ron, ve lo giuro, è riuscito a fare schifo, presentando anzi un simpatico pezzo country (o qualcosa del genere), che alla fine è meglio di un Renga o un Sarcina (ok, resti tra noi, Renga e Sarcina non li ho neppure ascoltati). Dove tra i giovani c’era il bravo The Niro e ha vinto una canzone di rap-neomelodico (pare si possa definire così) che bisognava avere coraggio. E un festival dove comunque c’era anche un gran pezzo, quello del bravo Riccardo Sinigallia che è stato forse per questo squalificato, e un gruppo indie (tanto per intenderci) come i Perturbazione che – a differenza di quanto capitato ad altri indie catapultati a Sanremo e davvero troppo fuori contesto – sul palco dell’Ariston ci stanno a meraviglia, con un pezzo che è carino e tipicamente Perturbazione, a testimonianza del fatto che esiste musica pop e leggera ma fatta con intelligenza, al di fuori dei circuiti sanremesi ma che potrebbe essere sanremese per fare di Sanremo un posto migliore. Ok, finito.
Adesso sento il bisogno di redimermi, consigliandovi un concerto di elettronica sperimentale, quello di venerdì 28 febbraio al Locomotiv di Bologna, dei grandissimi Demdike Stare che fanno una roba scura e inquietante che ti arriva fino al cuore, e di Andy Stott, autore di uno dei dischi più belli in campo elettronico degli ultimi anni.
Infine che dire, ero a Bologna per l’unica data italiana di Bill Callahan (al tutto esaurito teatro Antoniano, quello dello Zecchino d’oro, dove non si poteva bere alcol e signori in divisa hanno controllato per tutta la sera in platea che nessuno facesse foto) e un concerto dall’atmosfera soporifera (non lo si può negare) ma di gran classe, su cui aleggiavano i fantasmi di Lou Reed e Leonard Cohen (che è addirittura vivo, tranquilli) e che conferma almeno due cose. La prima è che Callahan è ormai entrato nell’olimpo dei classici del cantautorato americano. La seconda è che con il repertorio di Smog (a Bologna esplorato solo in due-tre pezzi) si farebbe un concerto per cui sarei disposto a cedere un rene per assistervi.

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