A Dangerous Method e Carnage un cinema all’insegna della noia e del fastidio

A Dangerous Method, di David Cronenberg (2011)
L’incontro tra due grandi della psicologia: il giovane Jung e il maestro Freud. Nell’ospedale in cui lavora Jung arriva una bella paziente, Sabina Spielrein, su cui il giovane dottore sperimenta con successo le sue teorie. Il rapporto tra la Spielrein, Jung e, successivamente, Freud, sarà al centro di una disputa tra i due dottori che porterà loro a un doloroso litigio e a un’inevitabile scontro. La storia, l’avrete capito, è vera e in parte già trattata al cinema dall’italiano Roberto Faenza, con Prendimi l’anima, film che focalizzava il tutto sulla storia d’amore Jung / Spielrein. Il tema,  interessante e fin troppo poco trattato nella nostra società, fa sì che lo spettatore si avvicini al film con interesse; aggiungiamo, poi, che dietro la macchina da presa c’è un grande del cinema che negli anni ci ha regalato perle (horror e non) come Videodrome, La zona morta, La mosca, Inseparabili e soprattutto il recente Spider, che come quest’ultimo indaga la psiche umana. Però il risultato è purtroppo soporifero e deludente. La recitazione risente della presenza di un’imbarazzante Keira Knightley, che fa smorfie per tutto il film, mentre la parte maschile è buona: Michael Fassbender è, con Ryan Gosling, l’attore del momento, e il mitico Viggo Mortensen passa da Aragorn a Freud con una certa classe. La messa in scena non sembra di Cronenberg, ma di un James Ivory (Camera con vista, Casa Howard, per citarne i belli) annoiato e senza fantasia, che decide di far passare i minuti di film a colpi di cups of tea e noia totale. Poi, da buon burlone qual dev’essere, si è accordato con Cronenberg per fargli firmare il film. Così, per prendere in giro noi spettatori. Che, a questo punto, più che vedere questo inutile trattato di psicoanalisi con la Knightley che ruggisce, farebbero meglio ad aspettare il nuovo film del maestro Ivory, sperando nella restituzione dello scambio.

Carnage, di Roman Polanski (2011)
Un bambino ha picchiato un altro. I genitori del colpevole vanno a scusarsi con quelli della vittima, dando lentamente vita a un gioco al massacro, per lo più fatto di parole e gesti. Il film fa immediatamente scattare un certo fastidio allo spettatore, che in cuor suo desidera che la coppia “colpevole” lasci al più presto quella casa. Fastidio che col passare dei minuti si trasforma in irritazione, sensazione cinematografica tutt’altro che negativa ma che necessita di un’evoluzione. Ad esempio, in Funny Games, l’irritazione diventa terrore; in Una pura formalità diventa tensione e stupore. Anche l’ambientazione, in una sola stanza, crea un senso di claustrofobia, così come ne La morte e la fanciulla, dello stesso Polanski (film di qualità ben superiore), che però ben presto trova sfogo in un appassionante e drammatico scontro. Il problema di Carnage è dato dal fatto che quest’irritazione, questo senso di inutilità, questo sguardo di partecipazione al gioco, non trovino né senso, né uscita. Senza rivelare il finale, la perplessità dello spettatore cresce fin quando, arrendendosi, non capisce che quello di Polanski non è altro che un elegante, raffinato esercizio di stile. Probabilmente le aspettative erano più alte: anche se il doppiaggio fa schifo, gli attori sono bravi (il tarantiniano Christopher Waltz su tutti), e anche i dialoghi sono ben scritti. Ma alla fine un bell’“embè?” scappa facile facile. Invisibile solo perché appena andato via dalle sale.

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